Il 2016 si è aperto con un crollo di pressoché tutti i listini azionari del pianeta, con perdite che hanno toccato punte anche del 40%. Tre sono gli eventi che nel giro di poche settimane hanno fatto da detonatore alle preoccupazioni degli investitori:
- l’inversione di rotta della Federal Reserve Usa sui tassi di interesse di policy, aumentati a dicembre 2015 per la prima volta dal settembre 2007. Anche se attesa dai mercati, la stretta ha provocato un riaggiustamento dell’asset allocation globale in direzione degli asset più sicuri;
- il nuovo crollo del prezzo del greggio, seguito all’accordo che consente all’Iran di tornare a esportare petrolio. All’inizio di gennaio, il prezzo del greggio si è posizionato al di sotto dei 30 dollari al barile, ampliando l’effetto negativo sia sui conti e gli investimenti delle imprese del settore sia sui paesi esportatori di petrolio. Nella situazione attuale di tassi di interesse Ocse prossimi allo zero o addirittura negativi, l’impatto ulteriormente deflattivo della riduzione del prezzo del greggio significa un aumento dei tassi di interesse reali;
- la crisi del mercato azionario cinese, il cui indice principale Sse (Shanghai) ha perso in tre crolli (giugno, agosto e dicembre) circa il 50% rispetto a metà giugno 2015. I media e anche molti investitori hanno confuso queste cadute del mercato cinese con il crollo della sua economia, aumentando il panico e il crollo. L’economia cinese sta effettivamente attraversando un periodo di transizione di difficile gestibilità, ma le risorse a disposizione delle autorità cinesi sono ancora molto ampie e sufficienti a evitare crisi sistemiche dovute al sistema bancario o alle amministrazioni locali o alle imprese indebitate. La Cina possiede ancora circa 3.300 miliardi di dollari di riserve valutarie (quasi il triplo di quelle giapponesi) e presenta deficit e debito pubblico contenuto rispetto al pil, bassa inflazione e un importante surplus commerciale.