Andare oltre i big e gli small data per innovare

QUANDO USCÌ NEL 2013 Big data – A revolution that will transform how we live, work and think (il titolo in italiano, ahimé, devia dal tema) gli ottimisti e i venditori di dati avevano di che gioire. In fondo il professore del rinomato Oxford internet institute annunciava un’epoca in cui si poteva conoscere e prevedere ogni cosa e quindi decidere con maggiore “leggerezza e nonchalance”. È così? Il sospetto che l’equazione “grandi dati uguale a grandi decisioni” fosse falsa era già venuto al big data scettico Nassim Taleb, autore del bestseller Il Cigno nero. Come l’improbabile governa la nostra vita e del saggio su Wired: big-data-means-big-errors-people. Anzi, per lui non è la risorsa del secolo ma la spazzatura del secolo. O meglio, l’illusione del secolo, un miraggio di mirabolanti informazioni che spesso non mantengono le promesse poiché, come fa notare Nicolas Bissantz, uno dei pionieri del data mining, le aziende sottovalutano il fenomeno del “garbage in, garbage out”.
L’errore, insomma, non sta dentro, nel computer (la macchina che calcola), ma davanti allo schermo (l’uomo che programma). Non sorprende quindi che un buon 55% dei progetti in big data vengono abbandonati dalle aziende già a metà strada e che una buona metà dei manager è solo moderatamente soddisfatta dei risultati (rapporto di Infochimps).
Ma forse Nicolas Bissantz darebbe direttamente la colpa ai manager non adatti al ruolo, o meglio non ancora abbastanza “nerdy” per capire come girano le cose. Sì, perché big data diventa un hype quando le imprese investono in una gestione data-driven senza averne i presupposti culturali o di business.
Amazon dice di fare il grosso del fatturato grazie a big data e dice bene poiché è un’impresa basata su dati e clienti anonimi, ma lo stesso non si può dire di un’impresa che ha dieci importanti clienti nel mondo, lì conta la relazione e ogni singolo “dato profondo”.

Grande traffico
Per ogni Iot un tot (di dati). È anche colpa di Internet of things se il traffico dei dati aumenta in modo esponenziale. Ogni cosa è condannata a generare dati: i motori di ricerca, i social media, i device, le automobili, le case, i magazzini, i bulloni, le scarpe da jogging, i profilattici (sì, volendo anche loro) e perfino gli animali nella versione animal agent configurati (tramite sensori e tecnologie miniaturizzate) come droni viventi per (giusto due esempi) misurare le qualità dell’aria (i piccioni di http://pigeonairpatrol.com) o individuare esplosivi (le cavallette della Washington University di St. Louis). Ma non è solo una questione di traffico ma anche di potere. I dati vogliono governare la futura algorithm economy. La medicina impone la data therapy, la ristorazione la data cuisine (con ricette generate dai dati, vedi Ibm), il marketing il data, o meglio l’emotion analytics, la smart home l’abitazione gestita da dati, l’assicurazione le polizze profilate dai dati, il calcio l’allenamento e preparazione partita “data oriented” (la Germania campione del mondo di Löw), il tennis la racchetta iperconnessa che analizza ogni singolo dato (Nadal), il dating le relazioni o avventure erotiche basate sul matching, l’industria automobilistica logiche di upgrade che si adattano tramite software al comportamento del guidatore (Tesla) e, ovviamente, il mondo del lavoro la supremazia dei dati e dei data scientist come i professionisti più sexy del futuro in grado di sostituire manager e magari giornalisti come il recente caso di Facebook, che come riportato dai giornali ha licenziato i giornalisti per affidare la sezione trending all’algoritmo, quindi agli ingegneri, per una maggiore oggettività dei temi rilanciati.
Si potrebbe obiettare che i pregiudizi umani sono presenti anche nelle scelte degli algoritmi, ma questa è un’altra storia. E per rimanere in tema di editoria e tecnologia basta guardare come Amazon ha trasformato il suo acquisto Washington Post: una macchina giornalistica fortemente ingegnerizzata che, tramite big data e algoritmi vari, sommerge i giornalisti mentre scrivono una storia di impressionanti masse di informazioni sui temi caldi in rete rilanciati dai social di ogni sorta. Quali storie sono richieste? Con quali titoli? Come li raccontano i concorrenti? Il tutto per diventare più attrattivi. Grande rivoluzione o grande congestione di dati? È presto per dirlo, ma immagazzinare e far girare grandi masse di dati non è la stessa cosa che saperle analizzare bene.
Per gli ottimisti big data trasforma le intuizioni in comprensioni al fine di realizzare prodotti e servizi migliori. È così? Vediamolo in due storie.

Piccolo traffico
A volte basta un dato in circolazione per cambiare le sorti di un prodotto. Il caso degli anni Novanta di Febreze della P&G è emblematico. Il prodotto per eliminare gli odori sgradevoli in casa lanciato in pompa magna su tutti i media e supportato da grandi dati e dalle ultime evidenze sul comportamento psicologico delle casalinghe si rivelò un clamoroso flop. Prima di gettare la spugna P&G fece due ultimi disperati tentativi per capire cos’era andato storto e, in barba a “Google e big data”, il colosso americano mandò pochi scienziati e professori di Harward a osservare in alcune case le donne all’opera. La soluzione arrivò in un piccolo paese presso Scottsdale in Arizona per merito di una sola frase o motivazione espressa dalla signora. P&G ribaltò ogni strategia e la frase diventò di fatto il claim della campagna e, dulcis in fundo, Febreze si affermò come un blockbuster.
Stesso discorso per la Lego, che 15 anni fa visse la sua più grande crisi. Big data annunciò al mondo intero l’Instant gratification-generation, ergo nessun bambino avrebbe più avuto voglia di trastullarsi con mille minuscoli pezzi di lego. Lego puntò tutto su pezzi grandi facili da montare ma i fatturati, sorprendentemente, continuavano a calare. Dove stava l’errore? La risposta l’azienda danese la trovò nella stanza di un bambino tedesco di 11 anni. Senza entrare nel dettaglio di quella chiacchierata informale (la potete trovare nel libro Small data. The tiny clues that uncover huge trends di Martin Lindstrom, marketing guru di fama mondiale), resta il fatto che quel dettaglio ha rilanciato la Lego facendola diventare il più grande produttore di giocattoli al mondo. Insomma, spesso big data ci porta a sapere più cose di ogni singolo consumatore, il che però non significa necessariamente conoscere ogni cosa anche meglio. Gli uomini, a differenza delle macchine, sono bugiardi e imprevedibili. Le cause dei comportamenti rimangono spesso oscure. Possiamo avere tutte le possibili informazioni su quante e quali persone frequentano un locale, cosa ordinano e quanto spendono, ma due dettagli sfuggono sempre: perché le persone ci vanno e, cosa ancora più importante, chi sono quelli che non ci vanno e per quale ragione. Non solo. Spesso gli stessi dati di Google analytics o altri possono trarre in inganno, sì perché sapere quante persone si trovano sul nostro sito, da dove provengono e che cosa stanno visualizzando non ci dice ancora abbastanza. Per dire: se 8 milioni di persone guardano quel prodotto, ergo gli interessa? oppure tutti pensano: mai visto un prodotto così idiota.

Misurato traffico
A furia di misurare (troppo) si perde il senso della misura. Che poi significa un misurato equilibrio nel traffico delle decisioni. Non si tratta di benedire o maledire i grandi dati o di preferire piccoli indizi e segnali deboli. La vera parola (e pratica) a cui riferirsi è: sintesi. Synnovation, sintetizzo dunque innovo. Ne abbiamo parlato nel ventiseiesimo numero di Dirigibile. In futuro si innova innovando la formulazione delle domande, sintetizzando (anche con dinamiche cross) discipline, campi e settori diversissimi fra loro e ovviamente, rimanendo in tema, sintetizzando il meglio di big data, small data e smart data. E se proprio si vuole prendere le dovute distanze da tutte queste diatribe, allora conviene tornare ai buoni vecchi fondamentali del pensare in grande: osservare significa provare, solo così si può comprendere. Lo so, è il solito ritornello, ma non esisterebbe nessun iPhone e nessun Cayenne se Steve Jobs e la Porsche non avessero avuto l’audacia di guardare oltre i dati. Un dato da tenere sempre a mente!

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