Bioeconomia: business del futuro. Appuntamento il 19 maggio

In occasione del convegno Bioeconomia, eccellenza italiana e opportunità di sviluppo, organizzato da Prioritalia per il 19 maggio al Fico di Bologna, facciamo il punto sulle prospettive in questo ambito con Fabio Fava, professore di biotecnologie industriali e ambientali presso l’Università di Bologna e rappresentante italiano per la bioeconomia presso la Commissione europea e l’Oecd

La bioeconomia è un business a tutti gli effetti, quanto pesa, quanto è cresciuta negli ultimi 10 anni e che potenzialità ha nel prossimo decennio? 
Della bioeconomia fanno parte i vari comparti della produzione primaria – agricoltura, allevamento, foreste, pesca e acquacoltura – e i settori industriali che utilizzano o trasformano le bio-risorse provenienti da questi comparti, come l’industria alimentare e dei mangimi, quella della cellulosa, della carta e della lavorazione del legno, insieme alle bioraffinerie, ossia parte dell’industria chimica e di quella dell’energia, e a parte dell’industria marino-marittima. In Europa ha un fatturato annuo di circa 2.200 miliardi di euro con 18,6 milioni di posti di lavoro. La bioeconomia italiana è terza in Europa, dopo quella tedesca e quella francese, con un fatturato annuo di oltre 255 miliardi di euro e quasi 1,7 milioni di posti di lavoro. Questi numeri sono cresciuti significativamente negli ultimi 10 anni e ci si attende che quella italiana possa crescere del 20% entro il 2030, soprattutto se la strategia nazionale approvata un anno fa sarà adottata e implementata dal paese.  

Sul fronte produttivo e trasformativo la bioeconomia italiana è già ai massimi livelli per innovazione, tecnologia…?

La produzione primaria italiana (agricoltura, allevamento, acquacoltura, produzione forestale/boschiva) può migliorare sensibilmente sia in quantità sia in qualità della biomassa prodotta; la trasformazione della biomassa verso prodotti alimentari o composti biochimici, biomateriali e biocombustibili può anch’essa aumentare in quantità, qualità dei prodotti e sostenibilità. Su entrambi i fronti serve maggiore tecnologia, soprattutto quella riconducibile ad industria 4.0, ma anche una maggiore interconnessione dei settori produttivi e di trasformazione, con una valorizzazione puntuale della biodiversità sia terrestre che marina, dei servizi ecosistemici e della circolarità. 

Anche nella bioeconomia soffriamo della presenza di tanti piccoli operatori che non fanno sistema, non hanno capacità manageriali adeguate, non penetrano nei mercati esteri. Che fare?

Serve l’adozione della strategia nazionale diretta a mitigare le criticità e a cogliere le opportunità non valorizzate sui territori, con la creazione di nuove catene del valore, più lunghe e maggiormente radicate nel territorio, che possano consentire la rigenerazione di aree abbandonate, terre marginali e siti industriali dismessi.  

Quali sono oggi in Italia i territori dove la bioeconomia è più presente e forte e quali hanno grandi potenzialità ma le sfruttano poco?

La bioeconomia è distribuita abbastanza omogeneamente sui territori, anche se i settori che la compongono hanno rilevanza diversa a seconda delle aree e delle regioni, ossia della vocazione agricola, forestale e industriale delle stesse, ma anche delle loro peculiarità climatiche e geomorfologia. Ovviamente le industrie di trasformazione della biomassa sono prevalentemente collocate nelle aree industrializzate e mentre le aree più sofferenti, in termini sia di produzione primaria che di trasformazione delle biomasse, sono quelle rurali e costiere. 

La bioeconomia è un business plurivaloriale e sostenibile: fa crescere il pil, diminuisce l’inquinamento, migliora ambiente e salute. Quali sono i numeri più significativi al riguardo?

La bioeconomia garantisce sicurezza e qualità alimentare, mitiga gli inquinamenti ambientali e i cambiamenti climatici, rigenera l’ambiente, limita la perdita di biodiversità e le grandi trasformazioni nell’uso del suolo. Non ci sono numeri robusti che quantifichino detti impatti in Europa o in Italia. Di certo l’uso efficiente delle risorse biologiche rinnovabili, con una produzione primaria più sostenibile e sistemi di trasformazione più efficienti per la produzione di alimenti, fibre e altri prodotti a base biologica con un minor utilizzo dei fattori produttivi, minor produzione di rifiuti e di emissioni di gas serra, come la valorizzazione dei rifiuti organici provenienti dall’agricoltura, dalle foreste e dall’industria alimentare, garantiscono alla bioeconomia un ruolo chiave ai fini degli obiettivi dell’economia circolare europea che sono la riduzione del 30% nell’uso delle risorse e del 50% della produzione di gas ad effetto serra e l’ aumento del 4% dell’incremento del Pil e di 1 milione di posti di lavoro entro il 2030. 

Cosa serve (incentivi alle aziende, attività normativa…) per far decollare veramente questo business in Italia?

Serve, come menzionato sopra, l’adozione e l’implementazione della strategia nazionale per la bioeconomia, che prevede azioni di ricerca e innovazione e di policy dirette a mitigare le criticità e a cogliere le opportunità non valorizzate sui territori dei diversi settori della bioeconomia ma anche a interconnettere questi ultimi, con la creazione di nuove catene del valore, più lunghe e radicate nel territorio, in grado di portare nuove opportunità nelle aree rurali, marginali e costiere. Servono inoltre a) maggiori investimenti in R&I, spin off/startup, istruzione, formazione e comunicazione, b) migliorare il coordinamento tra soggetti interessati e le politiche a livello regionale, nazionale e comunitario; c) migliorare il coinvolgimento del pubblico, e d) condurre azioni mirate allo sviluppo del mercato dei prodotti biobased, quali l’adozione di standard e incentivi specifici.  

Dal punto di vista di un lavoratore attuale e/o futuro la bioeconomia è un settore sul quale investire e se sì come (quali competenze servono, quali mancano, quali serviranno…)?

Sì, è un settore in cui investire ora e in futuro per le sue funzioni preziose per l’umanità e l’ambiente e per le aspettative di crescita menzionate poc’anzi. Soprattutto nel nostro paese. Serve però lavorare sulla formazione, che deve essere interdisciplinare, sia a livello professionalizzante sia universitario o post universitario, e garantita da referenti della scuola/accademia e da referenti chiave del settore privato. L’Italia è l’unico paese in Europa ad avere un master internazionale sulla bioeconomia circolare, Biocirce, garantito da 4 università (quelle di Bologna, Milano Bicocca, Napoli Federico II e Torino), due aziende (GF Biochemicals, Novamont), il Parco Tecnologico Padano e Banca Intesa. 

Come consumatori, invece, cosa possiamo fare per favorire lo sviluppo della bioeconomia?

Dovremmo fare attenzione a fare uso dei prodotti alimentari e biobased nazionali e, per questi ultimi, certificati, perché nell’ambito dei prodotti chimici, materiali e plastiche ottenuti da biomasse e biocompostabili, il mercato è caratterizzato anche da prodotti ottenuti da materie prime non rinnovabili ammendati con soli additivi biobased o dichiarati bio perché parzialmente biodegradabili. Questo rafforzerebbe il mercato nazionale e quello dei biobased products compostabili autentici e questo rafforzerebbe la bioeconomia nazionale. 

La moda del “bio” è partita da qualche anno. Ma è veramente tutto bio quello che è marchiato “bio”e come discernere?

Il prodotti alimentari e i prodotti biobased sul mercato sono “bio” quanto sono certificati tali, secondo standard e normative specifiche riconosciuti da enti europei e nazionali. Questi spesso costano più degli altri ma sono garantiti per la qualità, autenticità e sostenibilità ambientale.  

La bioeconomia ha anche una forte dimensiona sociale, non solo per la sostenibilità ambientale, ma anche per quella sociale. Di cosa si tratta?

Sì, la bioeconomia produce cibo e di qualità, rigenera l’ambiente in cui viviamo e crea lavoro, anche nelle aree rurali, marginali e costiere dove nessuna nuova azienda moderna o tradizionale andrebbe ad insediarsi. Questo ovunque, ma soprattutto in certe aree del pianeta a partire dal nostro Mediterraneo, crea una più ampia coesione sociale e una maggiore stabilità politica. 

Insomma, l’Italia non potrebbe fare della bioconomia uno dei suoi driver per una crescita strutturale e ad alto valore aggiunto? E come?

Sì, credo sia una grande opportunità che l’Italia investa sulla bioeconomia in maniera più determinata di quanto sia stato fatto ad oggi, data la sua terza posizione europea nello stesso ambito, ma soprattutto la sua ricca e sapiente vocazione agricolo-forestale ed imprenditoriale nei settori della bioeconomia (industria alimentare, lavorazione del legno, bioraffinerie ecc.), la sua speciale biodiversità e peculiare geomorfologia, gli oltre 10 milioni di ettari di terra coltivata e usata per allevamento e acquacoltura siti in aree rurali, i suoi 12 milioni di ettari di bosco e gli 8.000 km di coste. E la capacità dei suoi attori del settore pubblico e privato di essere, da un paio di anni a questa parte, i primi o i secondi in Europa nella ricerca e l’innovazione più competitiva nel settore, quale quella finanziata dalla Commissione europea attraverso Horizon2020 (SC2) e la Public Private Partnership Biobased industry. L’adozione e l’implementazione della strategia nazionale aiuterà molto il paese ad andare in questa direzione.  

Vedi il programma del convegno

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