Economia: come e da dove ripartiamo?

Piuttosto robusta anche nel 2022 la crescita dell’economia mondiale, con un tasso di espansione al 4,6%. E l’Italia? Le nubi all’orizzonte della ripresa paiono meno minacciose che altrove. Ne parliamo con Gregorio De Felice, chief economist Intesa Sanpaolo e componente del comitato scientifico dell’Osservatorio del Terziario Manageritalia

Come sta uscendo l’economia mondiale dalla pandemia? Quali cambiamenti strutturali ci si può attendere rispetto al pre-pandemia?
«La ripresa del 2021 è stata vigorosa per effetto della rapida disponibilità dei vaccini e del rilevante intervento della politica fiscale, che possiamo quantificare a livello mondiale in circa 18 trilioni di dollari. La crescita dovrebbe rimanere robusta anche nel 2022, con un tasso di espansione al 4,6%, malgrado la perdurante minaccia della pandemia. Molte incertezze sono legate alla persistenza di strozzature dal lato dell’offerta e all’emergere di sintomi di eccesso di domanda negli Stati Uniti. Avremo cambiamenti strutturali nelle catene del valore, che diventeranno probabilmente più corte. E anche le politiche delle scorte delle imprese, che in passato avevano portato a una loro riduzione strutturale, potrebbero modificarsi. Infine, la mobilità della popolazione potrebbe drasticamente ridursi con la diffusione del lavoro da remoto».

Queste considerazioni valgono anche per l’Italia?
«Potrà sembrare un paradosso, ma per l’Italia le nubi all’orizzonte della ripresa appaiono meno minacciose che altrove. Rispetto alla Germania, ad esempio, il nostro Paese è caratterizzato da un minor peso del settore automobilistico sul totale del manifatturiero e da una minor quota della catena produttiva delocalizzata in Asia. L’Italia è peraltro l’unico tra i quattro principali paesi dell’eurozona ad aver già pienamente recuperato i livelli di produzione pre-pandemici».

Come possiamo sfruttare il Pnrr per portare il Paese su un sentiero di crescita strutturale, sostenibile e inclusiva?
«Il Pnrr, con il suo imponente piano di investimenti e riforme, ci deve permettere di porre rimedio al grave gap di crescita che abbiamo rispetto ai principali paesi europei. Le ragioni della bassa crescita italiana sono imputabili a un insufficiente trend della produttività, a una carenza di investimenti e agli scarsi progressi del processo di riforme. Le lentezze della pubblica amministrazione e del sistema giudiziario giocano a sfavore del potenziale di crescita. Un obiettivo realistico dovrebbe essere quello di portare la nostra crescita strutturale al di sopra dell’1% anche dopo il termine del periodo di azione del Pnrr».

Viste le sempre più forti interconnessioni tra i settori, in che modo andrebbero orientate le misure di policy?
«Molte misure hanno carattere trasversale: pensiamo a quelle che riguardano i giovani e le donne per una maggiore inclusione sociale. In misura analoga, la digitalizzazione dell’economia non privilegia un settore rispetto a un altro, ma punta a una generale modernizzazione dell’economia e può consentire consistenti guadagni di produttività. Anche la transizione ecologica riguarderà molti settori: l’energia, l’edilizia, la moda, il packaging e persino il settore alimentare».

In Italia il terziario rappresenta quasi i tre quarti dell’economia in termini di Pil e occupazione, come in tutti i paesi più avanzati. Nonostante ciò riceve poca attenzione dai policy maker, con il risultato di presentare bassi livelli di produttività in molti comparti. Quali sono le misure più urgenti che si potrebbero adottare?
«Incrementare la concorrenza è un obiettivo centrale. Mi rendo conto che può sembrare poco popolare ma, se guardiamo al manifatturiero, una delle ragioni per cui in quell’area si è osservata una maggiore crescita di produttività è legata alla forte esposizione internazionale: le imprese hanno dovuto adottare strategie nuove per essere competitive, hanno dovuto innovare, spostarsi su fasce di prodotto di elevata qualità. Questo è avvenuto solo in parte nel mondo del terziario, perché molti comparti risultano “protetti” dalla concorrenza».

Ricerca, digitalizzazione e innovazione sono oggi i must per competere e crescere. Come diffonderli nel nostro sistema produttivo?
«Dobbiamo iniziare dalla pubblica amministrazione. Non abbiamo ancora una PA al servizio delle imprese. Anzi, molto spesso costituisce un ostacolo che allunga i tempi e lascia in sospeso le decisioni imprenditoriali. Rafforzare le capaci tà progettuali della PA e introdurre nel pubblico meccanismi incentivanti aiuterebbe ad accrescere il dinamismo del nostro sistema economico. Siamo anche in una fase in cui è fortemente aumentato l’intervento dello Stato nell’economia: questo intervento deve seguire linee chiare e prevedibili, con norme che non possono essere cambiate troppo spesso. Il sistema ha bisogno di certezze e chiarezza».

La sostenibilità ambientale è sulla bocca e nei piani di sviluppo di tutti. Per alcuni, se non ben gestita, può essere un freno, per altri un moltiplicatore della crescita. Per lei?
«La transizione ecologica sarà un’opportunità di crescita. La rivoluzione verde richiederà investimenti e innovazione. Sarà un bene non solo per il pianeta ma anche per quegli imprenditori che adotteranno le misure in tempo utile. L’opinione pubblica mostra una forte domanda di prodotti green. I policy maker hanno maggior consapevolezza di questi temi e ciò facilita i finanziamenti al mondo produttivo. L’Italia deve investire molto su questo e puntare ad avere una leadership mondiale, esportando beni e processi produttivi sempre più “verdi”».

Ritiene che anche per i dirigenti sia necessario un sistema di ammortizzatori sociali legato magari alle attività di formazione?
«Potrebbe risultare utile proprio in relazione alle fasi di transizione occupazionale: è da valorizzare l’apporto partecipativo delle organizzazioni di rappresentanza e degli enti bilaterali, là dove esistano, e soprattutto bisogna correlare le politiche di sostegno con le esigenze di innovazione del sistema delle imprese».

Per crescere e dare al Paese più qualità del lavoro, delle retribuzioni ecc. dobbiamo puntare a competenze e settori ad alto valore aggiunto. Come farlo in un tessuto economico così connotato da pmi e microimprese?
«Diverse indagini mostrano difficoltà per molte aziende nel reclutare ingegneri e tecnici con le competenze giuste. Contemporaneamente, abbiamo un tasso di disoccupazione giovanile altissimo. È urgente che il nostro sistema educativo evolva in modo da avvicinarsi in misura sempre maggiore alle esigenze del sistema produttivo. Maggiore qualità della formazione e competenze più elevate giustificherebbero anche remunerazioni più alte, con effetti positivi sul potere di acquisto dei giovani: oltre ad essere in numero insufficiente, i laureati italiani sono infatti anche meno pagati rispetto ad altri paesi europei. Le nostre imprese non possono vincere la sfida competitiva solo facendo leva sul controllo dei costi: innovazione e rafforzamento del capitale umano devono muoversi di pari passo. Una politica di investimento sulle competenze dei giovani dovrebbe dunque essere al centro dell’agenda politica. E non mi riferisco soltanto alle materie tecnico-scientifiche. Pensiamo alla carenza di personale medico resasi evidente durante la pandemia o, ancora, alla necessità di formare manager in grado di gestire situazioni sempre più complesse e sviluppare una visione anticipatrice sul futuro».


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