La riforma fiscale è ancora in bilico. Pensa sia una buona riforma ed è soddisfatto del lavoro fatto?
«La legge delega sulla riforma del fisco, approvata dalla Camera nel giugno scorso, e ora in attesa dell’approvazione definitiva in Senato, origina da un lavoro iniziato circa due anni fa nella commissione Finanze della Camera, che presiedo. Assieme ai nostri omologhi del Senato, iniziammo un lungo percorso di studio, ascolto e approfondimento.
Per sei mesi abbiamo audito le principali istituzioni nazionali e internazionali, tutti gli stakeholder e le parti sociali, i migliori esperti della materia. Ogni partito ha presentato i propri position paper e alla fine votammo all’unanimità, con la sola astensione di Leu, un documento conclusivo di indirizzo per impostare una sistemica e radicale riforma del fisco italiano, rimasto sostanzialmente alla metà del secolo scorso.
Il governo Draghi usò il nostro lavoro per elaborare il disegno di legge delega approvato dal governo il 5 ottobre scorso, il quale, dopo un ulteriore lavoro di modifica nella nostra Commissione e dopo l’approvazione alla Camera a giugno, è ora pronto per essere definitivamente approvato, se tutte le forze politiche confermeranno il loro intento. Sono quindi molto soddisfatto del metodo: abbiamo dimostrato che, quando vuole, la politica sa essere anche qualcosa di più che la gara a chi spara lo slogan più orecchiabile.
Dal punto di vista del merito, credo sia la prima occasione di riforma sistemica del nostro fisco, ma sarò soddisfatto solo quando anche l’ultimo dei decreti legislativi sarà emanato. Senza dimenticare che un primo modulo del nostro disegno (la riduzione dell’Irpef a 4 aliquote e l’abolizione dell’Irap per le persone fisiche) è già stato realizzato con la scorsa Legge di Bilancio».
Il fisco e la fiscalità sono uno dei fattori portanti per democrazia e coesione sociale, ma spesso diventano un facile specchietto elettorale stravolgendone del tutto il ruolo, non pensa?
«Quando diedi l’impulso per l’avvio del percorso, quasi due anni fa, dissi che fino ad allora la politica aveva dimostrato di saper parlare di tasse solo con l’agenzia di marketing incaricata di trovare gli slogan elettorali. E che era arrivato il momento di dimostrare che non era più così, che la classe politica aveva la maturità di affrontare con serietà, metodo e competenza il tema di una riforma complessiva del fisco. Durante il percorso abbiamo avuto un paio di momenti in cui il “richiamo della foresta” dello slogan elettorale ha ripreso il sopravvento.
Il primo è stato in primavera, con la polemica sul catasto, strumentale e assurda. Il secondo, purtroppo, è adesso: Forza Italia e Lega stanno mettendo in dubbio l’approvazione definitiva della riforma il 7 settembre, semplicemente perché mentre sono impegnati a promettere la Luna in campagna elettorale, non vogliono essere sorpresi a fare le riforme con i piedi ben piantati sulla Terra. Gli sporca la narrazione, diciamo».
In una recente indagine sui 38mila manager associati a Manageritalia, il 90% dei rispondenti richiede una riforma del fisco universale e strutturale, con un prelievo uguale per tutti i redditi e le categorie. Cosa ne pensa? È possibile andare in questa direzione?
«“Prelievo uguale per tutti i redditi e le categorie” significa flat tax, che non è applicata in nessun paese avanzato e non è nient’altro che una fantasia dei populisti. Se invece si intende un sistema in cui sul complesso dei redditi di un individuo, indipendentemente dalla fonte, si applicano le aliquote progressive dell’Irpef, questo equivale al modello della Comprehensive Income Tax, che abbiamo lungamente studiato in Commissione. Se da un lato ha il pregio di avere il massimo dell’equità orizzontale, dall’altro implicherebbe un consistente aumento di tassazione su alcune fattispecie di reddito: rendite finanziarie, lavoro autonomo sotto i 65.000 euro, redditi agricoli e redditi da locazione immobiliare».
Il fisco come può, e deve, diventare più vicino ai cittadini?
«Nel Decreto-legge n. 50 (cosiddetto “Aiuti”), lo scorso giugno, ho fatto approvare un emendamento che riforma la disciplina delle rateizzazioni delle cartelle esattoriali. Prima la situazione era questa: si poteva rateizzare su 72 mesi – senza complicazioni burocratiche – solo fino a un massimo di 60.000 euro; dopo 5 rate non pagate si perdeva il beneficio ma ci si poteva rimettere in termini in ogni momento successivo.
Si trattava di una situazione inefficiente: 60.000 euro è una cifra irrisoria per una piccola azienda in difficoltà, che poteva trovarsi nella spiacevole situazione di dover scegliere se pagare il fisco o i lavoratori. E in più, si permetteva a qualcuno di fare il furbo: si poteva smettere di pagare le rate – facendo provvista di liquidità – e poi se e quando fosse partita un’azione esecutiva, si pagava e si ricominciava daccapo.
Dopo l’approvazione del mio emendamento, si potrà rateizzare automaticamente fino a 120.000 euro, ma inteso come singola cartella, non più come debito complessivo, il numero di rate non pagate dopo le quali decade il beneficio passa da cinque a otto. Ma in cambio, una volta che perdi il beneficio, non lo puoi più riacquisire. Ho fatto questo piccolo esempio per mostrare di cosa ha bisogno il nostro fisco: più fiducia verso il contribuente, in cambio di maggior serietà».
La fiscalità è uno dei fattori portanti per lo sviluppo di un Paese perché deve riuscire a non condizionare l’attività economica e sociale, a stimolare la libera concorrenza e ad aiutare e incentivare particolari situazioni degne di attenzione. È d’accordo? Se sì, come farlo?
«Sono molto d’accordo. Per questo sono un fautore del sistema duale, in cui i redditi da lavoro e da pensione siano tassati con aliquote progressive che, secondo me, possono facilmente diventare tre, e tutti i redditi da capitale con una sola aliquota flat.
Questo impedirebbe al fisco di distorcere le libere scelte di allocazione del risparmio, che dovrebbero essere guidate unicamente da dove ci si intende collocare, considerando le preferenze, sulla frontiera rischio-rendimento. Se invece i redditi derivanti dai diversi impieghi alternativi del capitale sono tassati, come avviene ora, con aliquote così radicalmente diverse (dallo zero al 43%), lo Stato si intromette – a mio avviso indebitamente – nella libera scelta dell’individuo.
Il documento di indirizzo approvato dalle commissioni Finanze il 30 giugno 2021 conteneva l’indicazione del sistema duale, così come faceva il disegno di legge delega uscito dal consiglio dei ministri. Ma nel corso dell’esame parlamentare alla Camera il centrodestra – che in teoria dovrebbe essere lo schieramento più liberale – ha imposto la cancellazione di tale aspetto».
Il fisco può e deve essere anche un potentissimo fattore di sviluppo e realizzazione della sostenibilità, anche di quella sociale, economica e ambientale, vero? E come?
«La sostenibilità economica del fisco si ottiene evitando di fare promesse fantasiose e completamente irrealizzabili, come, ahimè, stiamo vedendo anche in questa campagna elettorale. La sostenibilità sociale si migliora riconoscendo che oggi il ceto medio sopporta un peso spropositato del fisco, e deve essere il target primario di ogni riduzione fiscale. La sostenibilità ambientale può essere favorita da una graduale rimodulazione delle imposte indirette per accompagnare (e non certo forzare) la struttura produttiva italiana verso la transizione ecologica».
Da questi punti di vista, il nostro sistema fiscale è carente. È d’accordo? E perché?
«Dei tre aspetti, quello su cui è più carente, a mio modo di vedere, è quello sociale. Il ceto medio, specialmente quello produttivo, è gravato da un carico fiscale eccessivo. E indubbiamente anche il fisco deve fare la sua parte nella sfida della sostenibilità ambientale, come del resto ha iniziato a fare anche il mondo finanziario».
La nostra fiscalità cosa deve fare per assumersi appieno questo diritto dovere e come?
«Dal punto di vista sociale, va superato quel riflesso condizionato, e un po’ sloganistico, secondo cui ogni riduzione fiscale vada sempre e comunque rivolta ai redditi bassi, indipendentemente da quanto fatto in passato, dallo squilibrio rispetto alle altre classi di reddito e soprattutto dal gettito fiscale che effettivamente proviene dai redditi bassi. Qualche dato, basato sulle ultime dichiarazioni dei redditi, può aiutare a comprendere il punto.
Ci sono 18,4 milioni di contribuenti sotto i 15.000 euro di imponibile annuo, e ognuno paga in media 17,58 euro di Irpef al mese. È difficile, pertanto, perseguire il sacrosanto obiettivo di aumentare il reddito disponibile di costoro agendo sul lato fiscale, perché non c’è più molto margine. Su queste fasce va invece azionata la riduzione del cuneo contributivo, come meritoriamente ha fatto il Governo Draghi con i due decreti-legge, cosiddetti “Aiuti”. Allo stesso tempo, coloro con un imponibile annuo superiore ai 35.000 euro – che qualcuno ha il coraggio di etichettare come “ricchi” – sopportano da soli quasi il 60% di tutta l’Irpef italiana».
Le tasse sono determinanti per lo sviluppo di un Paese, però devono pagarle tutti secondo equità e i soldi vanno spesi bene. Vero?
«Il patto sociale, che da sempre basa sul fisco la sua legittimazione più basilare, richiede da un lato che il prelievo fiscale sui cittadini sia equo e sostenibile, ma dall’altro che chi temporaneamente occupa il potere pubblico spenda quei soldi meglio di come spende i suoi soldi privati. E su questo abbiamo ancora tanta strada da fare. In Italia la spesa pubblica è stata tradizionalmente usata anche per acquistare, mantenere e retribuire consenso politico.
Lo hanno fatto a destra, a sinistra, al centro. Ora una nuova offerta politica liberal-democratica deve avere il coraggio di riconoscere questa cronica patologia dello spazio pubblico italiano e porvi rimedio una volta e per tutte. Una prima occasione è quella che ho citato poco fa come possibile misura di copertura per una seria riforma fiscale: dal 2010 al 2021 i consumi intermedi della pubblica amministrazione sono cresciuti di circa 22 miliardi, quando il tasso di inflazione cumulato avrebbe giustificato un incremento di poco più della metà.
Applicando costi standard, metodologie di analisi dei fabbisogni, unificazione delle stazioni appaltanti e vero controllo di gestione abbiamo amplissimi margini di efficientamento della spesa per acquisti. Così non solo spenderemo meglio i soldi pubblici, ma potremo destinare ingenti risorse alla riduzione della pressione fiscale per chi lavora e produce».