Innovare per cambiare: intervista a Domenico De Masi

La prima cosa da fare per innovare? Cambiare la scuola italiana, madre di tutte le sventure e di tutte le speranze. Dobbiamo cambiare anche la nostra visione del mercato del lavoro e, in azienda, servono nuove tecnologie e creatività. Questo è il messaggio che ci lancia il sociologo Domenico De Masi, che è stato protagonista quest’anno del Forum Hr che ha avuto come tema centrale l’ispirazione come driver di innovazione e di cambiamento

Cambiare e innovare sono due azioni consequenziali, ma spesso si cerca una senza l’altra?


«Si può cambiare in bene o in male, arretrando o avanzando. Se ci si sposta dalla situazione di base, e comunque ci si sposti, si cambia. Nella parola innovare, invece, è contenuta una certa dose di positività. Innovare, infatti, è sinonimo di svecchiare».

Oggi si parla tanto di cambiamento, ma perché, non solo nel mondo del lavoro, dobbiamo cambiare?

«Non dobbiamo cambiare per cambiare. Nel lavoro, nella società e nella vita dobbiamo innovare solo ciò che è superato».

A livello generale, cosa dobbia
mo cambiare?

«Dobbiamo cambiare prima di tutto e soprattutto la scuola, che è la madre di tutte le sventure e di tutte le speranze. Negli anni Ottanta alcune regioni del mondo capirono che il futuro di un paese dipende dall’innovazione e dalla conoscenza – dunque, dalla scolarizzazione – mentre altre, tra cui l’Italia, non lo capirono. Enrico Moretti, docente di Economia a Berkeley, ha dimostrato con dovizia di dati che “la scolarità è divenuta la nuova discriminante sociale, a livello sia individuale sia di comunità” e che dal numero dei laureati dipende il destino economico delle città sia americane che europee. Le aree con maggiore percentuale di abitanti laureati hanno maggiore occupazione, stipendi più alti, minore criminalità, meno divorzi, vita culturale più intensa, migliore qualità della vita. Negli Stati Uniti le aree metropolitane più ricche e avanzate (come Boston e San Jose) hanno una percentuale di laureati che oscilla tra il 47 e il 56%; le aree metropolitane più povere e arretrate (come Merced e Yuma) hanno una percentuale di laureati che oscilla tra l’11 e il 13%».

Come si posiziona l’Italia?

«In Italia la percentuale di laureati è del 13%, dunque più o meno pari a quella delle due aree metropolitane più disastrate d’America. La nostra percentuale di iscritti all’Università sul numero di giovani in età universitaria (19-25 anni) è pari al 34,4% tra i maschi e al 40,8% del totale. Nella Corea del Sud la percentuale è del 98%; negli Stati Uniti è del 94%; in Spagna è dell’85%. Consapevole del rapporto virtuoso tra numero di laureati e sviluppo, la Germania, che pure ha una percentuale di iscritti all’università più che doppia rispetto a quella italiana, ha adottato una serie di incentivi per indurre i diplomati a proseguire gli studi: pur di attirare studenti ha eliminato le tasse per il primo triennio e ha accolto molti giovani emigranti diplomati. Noi, invece, con un esiguo numero chiuso, stiamo sbarrando l’accesso all’università a un prezioso capitale umano composto da migliaia di giovani volenterosi. Invece di adeguare le strutture carenti alla quantità potenziale degli studenti, preferiamo ridurre il numero delle matricole, castrando così ogni possibilità di sviluppo per l’università e per il paese».

Parlando invece del mondo del
business e del lavoro?

«Dobbiamo cambiare la nostra visione del mercato del lavoro rendendoci conto che il progresso tecnologico elimina più posti di quanti ne crei. Ciò comporta la necessità di ridistribuire il lavoro tra coloro che sgobbano dieci o più ore al giorno e coloro che sono disoccupati. Comporta pure la necessità di creare subito un reddito di cittadinanza per i Neet (Not engaged in education, employment or training), cioè per i giovani che hanno terminato magari brillantemente gli studi, ma non trovano lavoro».

L’innovazione è umanamente più difficile dello status quo, cosa fare per coinvolgere tanti o tutti?

«Per innovare in azienda occorrono nuove tecnologie e creatività. Per incentivare la creatività occorre abbattere le barriere burocratiche; incoraggiare il clima di entusiasmo; ottenere che la mission e gli obiettivi dell’impresa siano condivisi da tutti i suoi componenti; formare gruppi creativi unendo personalità fantasiose e personalità concrete; privilegiare la leadership partecipativa e carismatica, improntata alla leggerezza e alla sperimentazione; insistere con tenacia nelle azioni innovative senza scoraggiarsi di fronte agli insuccessi; non indulgere alla furbizia e non farsi tentare dalle scorciatoie; non discriminare chi assume atteggiamenti critici; coniugare locale e globale; curare l’estetica dei luoghi e la cortesia dei comportamenti; dare senso alle cose che si fanno evitando quelle insensate; curare la dimensione femminile dell’azienda, fatta di soggettività, emotività, estetica, etica e cura».

Qual è il ruolo dei lavoratori nell’innovazione e come coinvolgerli e renderli protagonisti? E quello dei giovani?

«Sia il ruolo dei lavoratori che quello dei giovani è imprescindibile. Purtroppo ogni progresso, oltre a portare vantaggi, fa anche delle vittime. Occorre, dunque, as- secondare il progresso facendo in modo che i suoi vantaggi e i suoi danni siano equamente distribuiti su tutti i soggetti coinvolti nel processo produttivo: fornitori, operai, impiegati, manager, dirigenti, proprietari e consumatori. I giovani, a loro volta, sono protagonisti essenziali dell’innovazione perché figli dell’era e della cultura digitale. I “digitali” vivono guardando al futuro. Si godono l’ubiquità conquistata grazie ai cellulari e a internet. Sperano che la biogenetica gli procuri una vita più lunga e più sana. Considerano positiva la parificazione tra i sessi. Amano l’ozio almeno quanto amano il lavoro. Vivono la notte almeno quanto vivono il giorno; non fanno distinzione tra giorni feriali e giorni festivi. Ammirano l’arte e la musica contemporanea. Condividono il controllo delle nascite, l’eutanasia, la globalizzazione, il telelavoro, la flessibilità. Sono sensibili all’ecologia, allo sviluppo sostenibile, alla multirazzialità. Non fanno troppa differenza tra le attività di studio, di lavoro e di tempo libero; tra i rapporti tangibili e quelli virtuali. Sono intellettualmente nomadi. Tendono a comunicare per mezzo di “nuovi esperanti” come la musica rock, la cultura post-moderna, la disinvoltura dei rapporti sessuali, l’assenza di ideologie forti. Anche quando non sono ottimisti, comunque accettano il mutamento. Concordano con Eraclito quando afferma: “È nel mutamento che le cose si riposano”».

Tornando all’economia, quale scenario futuro sarebbe il più auspicabile e perché?

«Credo che, fra dieci-quindici anni, il pil pro capite nel mondo sarà cresciuto almeno del 150% rispetto a oggi. I potenziali consumatori saranno un miliardo in più. Il Primo mondo conserverà il primato nella produzione di idee ma riuscirà sempre meno a saccheggiare i paesi poveri. I paesi emergenti produrranno soprattutto beni materiali. Il Terzo mondo continuerà a fornire materie prime e manodopera a basso costo. L’Unione europea resterà il più grande blocco economico, con la migliore qualità della vita. La Cina avrà le maggiori riserve valutarie, le maggiori banche del mondo e almeno 15 megalopoli con più di 25 milioni di abitanti.
Accanto ai Bric (Brasile, Russia, India, Cina), saranno emersi i Civets (Colombia, Indonesia, Vietnam, Egitto, Turchia, Sud Africa). In tutti questi paesi aumenteranno i consumi e l’inquinamento».

Parlando invece di lavoro?


«Credo che la produttività del lavoro crescerà a velocità esponenziale grazie al progresso tecnologico. L’effetto congiunto di legge di Moore, riconoscimento vocale, nanotecnologie e robotica, comporterà un enorme “sviluppo senza lavoro”.
I lavori manuali e quelli intellettuali ma esecutivi saranno assorbiti dalle macchine, trasferiti nei paesi emergenti o affidati a immigrati. La Cina sarà la più grande fabbrica e l’India sarà il più grande ufficio del mondo. I creativi occuperanno la parte centrale del mercato, più garantita e retribuita. Se il lavoro esecutivo non verrà ridistribuito, la disoccupazione aumenterà e un numero crescente di Neet sarà costretto a consumare senza produrre. In questo caso si avrà una riduzione dei consumi e un aumento dei conflitti sociali».

In Italia quali attori devono farsi
carico di questo cambiamento?

«Tutti i cittadini, ciascuno secondo il suo livello di istruzione e il suo ruolo socio-politico, sono implicati nei processi innovativi e devono farsene carico. I manager parlano sempre di innovazione ma ne fanno poca. Sarebbe bene che ne parlassero di meno e ne facessero di più».

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