È il momento dell’industria 4.0, il momento di rivisitare le organizzazioni in base alle competenze per creare nuova occupazione in grado di cogliere le opportunità che questa rivoluzione sarà in grado di offrire. Una rivoluzione figlia di cambiamento – ulteriore – tecnologico, della robotizzazione, della digitalizzazione. Le sfide in questo caso sono tutte incentrare sulla “qualità” delle risorse umane che, da un lato dovranno avere la giusta competenza e dall’altro dovranno essere in grado di utilizzare al meglio il “patrimonio” umano, organizzando e modificando schemi e processi ultra-radicati nel tempo e nelle “teste” di tutti.

È evidente che in questo contesto il dubbio che si possa creare un esercito di disoccupati poiché “incompetenti” sussiste, una disoccupazione a mio avviso molto più grave in quanto nasce da una condizione “soggettiva” che già a un primo esame (riqualificazione interna) qualcuno ha ritenuto non superabile, non colmabile e quindi destinata a condannare alla disoccupazione, poiché dall’altra parte, c’è la disoccupazione “oggettiva”, ovvero quella che dipende dall’assenza di lavoro.
Accanto alla vicenda Industria 4.0, poi abbiamo tutte la tematica afferente la cosiddetta “app economy”, ovvero quel fiorire di opportunità imprenditoriali e conseguente occupazione basata su un modello di business e di organizzazione decisamente nuovo (per noi…).
In questo caso non c’entra la robotizzazione e altro, siamo in presenza di un’attività fondata sulla prestazione in base all’esigenza: on demand.

Orbene, abbiamo già avuto modo di “contestare” l’attività dei prestatori di lavoro del settore e/o la qualificazione giuridica di essa (cfr. Foodora) e la domanda che sorge spontanea è: non vogliamo questo tipo di occupazione? Vogliamo immaginare regole e procedure da applicare a una realtà che non può geneticamente accoglierle?
Oppure prendiamo atto delle differenze, delle peculiarità, delle esigenze e cerchiamo di creare una struttura anche giuridica a supporto della legalità?
Questo non è un rapporto di lavoro subordinato come noi lo conosciamo, non c’è lo stesso sinallagma: tempo a disposizione = retribuzione!
Non è così perché non è impresa secondo lo schema ordinario.

Questo vuol dire capovolgere il paradigma del lavoro così come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi.
Le attività economiche che ruotano attorno a un’app sviluppata ad hoc producono una semplificazione dei processi produttivi e organizzativi, una digitalizzazione delle attività che prima erano svolte dai collaboratori e che oggi sono automatizzate. Partendo dall’assunto che il lavoro mediato da un app non è riconducibile al lavoro dipendente ma, al contempo, prevede alcune caratteristiche del lavoro subordinato, il Jobs App dovrebbe prevedere alcuni punti fermi validi per tutte le aziende della App Economy: (i) la retribuzione variabile. Prevede una retribuzione fondamentalmente variabile legata alle consegne e non una paga oraria che poco si addice a un modello in cui si lavora sulla base della disponibilità offerta dal collaboratore (ii) minimo contrattuale.

Stabilire un minimo retributivo a consegna valido per tutte le aziende del settore che applicano il Jobs App, evitando così, una competizione sulle retribuzioni (iii) regole retributive e del lavoro uguali per tutti.
Credo sia importante ragionare in questi termini per tante ragioni di opportunità socio/economica e credo che non si debba lasciare spazio alla magistratura che, ragionando in termini di legalità, in assenza di provvedimento normativi o illuminate parti sociali, non sarà in grado di cogliere le opportunità offerte da queste attività.

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