L’alfabeto del leader: B come backshoring

Le imprese italiane ritornano nel nostro paese? Il nuovo trasferimento della produzione ha varie motivazioni

Gli studiosi hanno esaminato 376 casi di backshoring del 2013 e hanno verificato che in Italia ha riguardato 79 aziende, il doppio che in Germania, Gran Bretagna e Francia. Il nostro paese, anche oggi, è primo in Europa e secondo in classifica generale, preceduto solo dagli Stati Uniti.

Tra i casi italiani spiccano Azimut, Beghelli, faac, Furla, Mediolanum Farmaceutici, Nannini e Wayel, che hanno lasciato, tra le altre, Cina, Repubblica Ceca, Slovacchia e Turchia.

Alla domanda «Perché ritornate in Italia?» le risposte sono state molteplici. Per il 42%, la ragione principale del ritorno è l’effetto positivo che ha il made in Italy sul consumatore, associato a prodotti di buona manifattura. Il 24% ha indicato come motivazione per operazioni di backshoring lo scarso livello di qualità della produzione off-shore.

La terza ragione (il 21%) riguarda la necessità di un’attenzione maggiore verso i bisogni dei clienti, mentre per il 18% la motivazione è la pressione sociale nel paese di origine. Per il 16% il fatto che ci sia un più elevato livello di competenze nel paese d’origine e per il 13% la disponibilità di capacità produttiva e la riduzione del divario del costo del lavoro.

Infine, per l’11%, minori costi logistici. Portare lontano la produzione ha significato, quindi, creare una supply chain difficile da controllare: fornitori di materia prima, produttori, fornitori di servizi, vettori trasportatori dei prodotti creati e consumatori finali possono trovarsi a migliaia di chilometri di distanza, interconnessi in una catena dalle maglie troppo allentate, causa di molti potenziali intoppi e di costi occulti che alla fine possono pesare molto più del previsto. In altri casi il perdurare della crisi nel nostro Paese è stato letto anche come un’opportunità per trovare competenze sul mercato a costi più bassi di prima, oppure ha consentito di trovare accordi di flessibilità che permettono un più alto utilizzo degli impianti e quindi una maggiore produttività rispetto al periodo precedente il 2008.

Oggi più di prima le tecnologie rendono conveniente la vicinanza ai mercati, specialmente se la produzione è finalizzata a specifici segmenti di mercato. Come, per esempio, il segmento del lusso. Una rilocalizzazione per nicchie che trova la sua massima potenzialità nel settore del made in Italy che continua a essere un asso nella manica vincente sui mercati di tutto il mondo. Se si è investito saggiamente in automazione industriale e si può disporre delle necessarie competenze.

Il nuovo trasferimento in Italia della produzione può riuscire a conciliare i costi con gli innegabili vantaggi commerciali e d’immagine. Esempi virtuosi sono la Nannini di Firenze che torna a produrre le sue borse di pelle in Italia dall’Europa dell’est, o l’Azimut che dalla Turchia torna in Italia con i suoi yacht.

Il brand «made in Italy», però da solo non basta. Ne è prova la Belfe di Vicenza che produce abbigliamento di qualità uomo-donna. Dopo aver portato la produzione in Bulgaria, la Belfe aveva deciso di tornare sui suoi passi e aveva di nuovo investito in Italia. Poi, però, di fronte ai soliti problemi che lamentano tutti gli imprenditori che scappano dal nostro paese, Belfe ha deciso nuovamente di tornare in Bulgaria, chiudendo anche il suo ultimo stabilimento alle porte di Vicenza, e lasciando in Italia solo un ufficio commerciale. Come sappiamo, i motivi che spingono alla delocalizzazione sono vari: l’eccessivo peso fiscale, la burocrazia pubblica, un mercato del lavoro troppo rigido, una giustizia dai tempi troppo lunghi, e così via. Se a questi problemi non si metterà mano rapidamente, non solo l’Italia continuerà a non essere appetibile per gli investitori esteri, ma non riuscirà neanche a fare del backshoring un fenomeno in grado di incidere.

Il backshoring, inoltre, non necessariamente porta nuova occupazione in maniera rilevante. Certamente contribuisce a creare posti di lavoro, ma non è certo la soluzione ai problemi occupazionali italiani. Alcune aziende, infatti, hanno addirittura dovuto attuare piani di ristrutturazione dopo la rilocalizzazione produttiva, come la Bonfiglioli Riduttori che, dopo aver riportato parte della manifattura nello stabilimento vicino a Forlì, ha contestualmente dovuto affrontare quasi 250 esuberi su 1.300 dipendenti. La strada per la ripresa è quindi ancora molto lunga, ma non c’è dubbio che questo fenomeno sia una novità positiva, anche se ancora circoscritta. Comunque da non perdere di vista.

Tratto da L’alfabeto del leader – Compedio semiserio per manager colti (Guerini Next).

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