L’America first schiaccia l’accordo di Parigi

La decisione di Donald Trump appare come un boomerang per l'economia: i dati mostrano uno scenario diverso rispetto a quello descritto dal presidente degli Stati Uniti

Trump colpisce ancora. È ufficiale. Gli Stati Uniti si sono inesorabilmente ritirati dall’accordo di Parigi in nome del mantra dell’“America first” e della difesa di migliaia di posti di lavoro nell’industria del carbone.

Da un punto di vista meramente politico, la veridicità dei fatti e dei dati enunciati dal presidente nel suo intervento al Rose Garden poco importa. Conta assicurare il continuo successo della commedia politica trumpiana, come ampliamente riconfermato dallo show del presidente di giovedì scorso. Da un punto di vista economico, invece, gli Usa, a nostro avviso, stanno correndo un altissimo rischio nella convinzione che una politica energetica nazionalista, basata su combustibili fossili altamente inquinanti, possa fortificare il paese e renderlo più competitivo. Efficace il commento di Ivo Daalder, direttore del Chicago Council on Global Affairs, per cui la politica dell’“America first” può facilmente tramutarsi in “America alone” e di lì a poco in “Trump alone”. Più che far fede allo slogan trumpiano del “make American great again”, gli Stati Uniti avrebbero potuto adottare il principio del “make our planet great again” come suggerito dal neo-presidente francese Macron, ma a quanto pare questa visione sarebbe stata troppo iniqua per l’economia americana…

Il piano sulle politiche ambientali
L’obbligo principale per i paesi firmatari dell’accordo sul clima è quello di presentare con cadenza quinquennale un piano che descriva le politiche volte alla mitigazione del cambiamento climatico. Con Obama gli Usa si erano impegnati a ridurre le emissioni di gas serra del 26-28% al 2025 rispetto ai livelli del 2005 e avevano stanziato mezzo miliardo di dollari nel “green climate fund”, istituito appositamente per aiutare i paesi in via di sviluppo a implementare le politiche ambientali. Una serie di standard sull’efficienza dei carburanti e di efficienza energetica per costruzioni ed elettrodomestici sono tra le principali misure previste nel piano americano per raggiungere l’obiettivo al 2025. Tuttavia, la maggior parte del contributo al target del 26-28% sarebbe dovuto derivare dallo storico “Clean Power Act” di Obama che per la prima volta imponeva limiti stringenti alle emissioni di anidride carbonica delle centrali elettriche, ma che il neo presidente ha prontamente provveduto a smantellare nel primo trimestre di quest’anno. Nel suo discorso Trump si è detto pronto a rinegoziare nuove condizioni con la comunità internazionale sul tema del cambiamento climatico a patto che esse siano favorevoli per l’economia americana. In realtà l’accordo di Parigi non è vincolante e non prevede penalizzazioni dirette per nessuno degli stati firmatari, per cui un singolo stato potrebbe tranquillamente indebolire i piani presentati originariamente, anche se ciò non è ovviamente auspicabile. Ma per meglio allietare i suoi sostenitori, Trump ha optato per il colpo di scena adottando la mossa radicale dell’uscita senza se e senza ma. Peccato che secondo i regolamenti di Parigi ci vogliono ben quattro anni per rendere efficace l’exit dal trattato… per cui gli Usa potrebbero ancora far parte dell’accordo fino alle prossime elezioni presidenziali nel novembre del 2020.

Una visione miope
Ma più che sui cavilli di giurisprudenza internazionale, vale la pena soffermarsi sui fatti: con questa mossa Trump riuscirà davvero a fare da trampolino di lancio all’industria del carbone e a rallentare l’avanzata delle energie alternative? Basta guardare i dati che mette a disposizione il Department of Energy americano per concludere che l’uscita dal trattato mette a rischio più posti di lavoro di quanti non riesca a salvarne. Come mostra la tavola 1, il totale degli impiegati nel settore del solare e dell’eolico (circa 476.000) è pari a circa tre volte il numero degli occupati nel carbone. Probabilmente a Trump interessa più la distribuzione degli occupati nei vari stati americani piuttosto che l’allocazione settoriale: circa il 40% degli impiegati del solare sono californiani, mentre gli occupati del carbone sono concentrati in West Virginia, Wyoming, Pennsylvania e Kentucky, guarda caso esattamente gli stati in cui Trump ha ottenuto più consensi.

In più la recente battuta d’arresto del settore del carbone è stata causata in parte dall’avanzata delle energie rinnovabili, ma soprattutto dalla concorrenza con il gas naturale, che pur facendo parte della famiglia dei combustibili fossili, è di gran lunga più economico e pulito del carbone (tavola 2).

Ciò che rileva per il mercato del carbone non è tanto l’ammontare dei sussidi alle energie verdi, ma il prezzo del gas naturale, suo diretto concorrente. È la legge di mercato che stabilisce il futuro del carbone e le politiche di Trump potranno solo posticipare (di ben poco) la celebrazione dei suoi funerali.

La crescita delle rinnovabili
Stessa storia vale per le rinnovabili. Anche qui c’è ben poco che Trump possa fare per arrestare la crescita straordinaria che stanno vivendo il solare e l’eolico: in media parliamo di un aumento della capacità installata rispettivamente del 46% e 21% all’anno negli ultimi dieci anni. Per non parlare dei costi di produzione che continuano a diminuire a vista d’occhio e in molti casi sono già competitivi con il carbone e con il gas naturale. Le opportunità di business nel settore delle rinnovabili coniugate allo sviluppo dello storage, delle batterie agli ioni di litio, dei veicoli elettrici sono elevatissime e sono questi i settori su cui Trump dovrebbe focalizzarsi se vuole davvero realizzare l’obiettivo del “make America great again”, piuttosto di tecnologie sporche, obsolete e sempre meno competitive come il carbone.

La United States Climate Alliance
Su questa linea un gruppo di stati tra cui la California, New York e Washington, rappresentanti circa il 30% del Pil Usa, hanno dato vita alla “United States Climate Alliance”, una coalizione che si impegna a raggiungere gli obiettivi dell’accordo di Parigi tracciati da Obama. Di fatto, la responsabilità delle politiche energetiche americane è condivisa tra il governo federale, i governi statali e locali ed è curioso che la stessa divisione dei poteri che aveva tormentato Obama nell’imposizione di limiti alle emissioni per i singoli stati nel delineare il Clean Power Act stia ora giocando a favore delle politiche volte alla lotta al cambiamento climatico. Iniziative parallele includono l’”America’s Pledge” lanciata da Michael Bloomberg per coordinare una serie di governi e imprese locali al raggiungimento del target del 26% al 2025 e altre alleanze di sindaci di grandi città e imprenditori che intendono sottoporre all’Onu un patto con cui si impegnano a rispettare gli accordi di Parigi. Tanto per dare un’idea dell’importanza di queste iniziative ricordiamo che se la California fosse indipendente sarebbe la sesta economia globale mentre gli stati del “Climate Alliance” assieme sarebbero la terza economia al mondo.
Alla luce di tali osservazioni forse non bisogna dare tutti i torti all’economista dell’Università di Canberra Luke Kemp, che con la sua filosofia del “better out than in” delinea il paradosso della partecipazione degli Usa agli accordi sul clima sotto l’amministrazione Trump: un ostruzionista al tavolo della convenzione di Parigi con diritto di veto avrebbe probabilmente causato più danni che benefici al futuro del nostro Pianeta avendo il potere di bloccare lunghi processi decisionali e negoziazioni chiave per raggiungere l’obiettivo dei 2C al 2100. Meglio out.

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