Le 10 imposte che corrono di più

I tributi il cui gettito si è accumulato maggiormente dal 2002 al 2015

Molto probabilmente il più grande vantaggio che il nostro Paese ha tratto dalla partecipazione al sistema della moneta unica europea è dato dal ridimensionamento del processo inflazionistico e dal conseguente calo dei rendimenti dei titoli del debito pubblico.
Com’è noto, i titoli del debito pubblico hanno rappresentato per un lungo periodo di tempo uno degli impieghi più redditizi del mercato finanziario, tanto da assorbire una quota elevata e crescente del risparmio nazionale e da far emergere un nuovo ceto sociale: i cosiddetti bot people. A sostegno di ciò, basti rilevare che nel decennio 1985-1995 i nostri treasury bond hanno garantito tassi di interesse a due cifre, compresi tra il 10 e il 15% in termini nominali (5-6% in termini reali). Se è vero che questi tassi così elevati hanno consentito a molti lavoratori (non solo a quelli delle fasce di reddito medio-alte) di poter disporre di un “gruzzoletto” per la vecchiaia; è anche vero, però, che alla lunga essi hanno contribuito ad ampliare gli squilibri della nostra economia, a ridurne le potenzialità di sviluppo e ad esercitare una pressione crescente sulla finanza pubblica.   
A partire dal 2002, cioè dall’introduzione dell’euro, la situazione è profondamente cambiata, tenuto conto che il rendimento dei titoli di Stato si è ridotto in misura notevole, avvicinandosi nel 2015 alla soglia dello 0,5%. Tuttavia, quest’indubbio vantaggio, anziché essere utilizzato per varare le riforme necessarie al consolidamento dell’economia, è stato in gran parte dissipato dalla scellerata politica del “tassa e spendi”. Politica alla quale sono riconducibili molti dei problemi che affliggono il nostro Paese (bassa crescita, scarsa innovazione, diffusa corruzione ecc.), perché essa risponde più a logiche clientelari/elettorali che a criteri di efficienza/efficacia. Senza dimenticare che le continue esigenze di finanziamento della maggiore spesa pubblica hanno spinto il legislatore ad introdurre dei balzelli davvero assurdi, quali, ad esempio, la “tassa sull’ombra” e la “tassa sulla raccolta dei funghi”. Per non parlare dei sistematici rincari dell’accise sui carburanti destinati alla copertura dei più disparati interventi; oppure delle bizzarre proposte di tassare i cani non sterilizzati, l’olio di palma, i defunti…

Lo spartiacque del 2008
Per quanto riguarda più in particolare il recente andamento della tassazione, si tenga presente che il periodo compreso tra il 2002 e il 2015 può essere suddiviso in due parti, con lo spartiacque essendo rappresentato dal 2008, l’anno dello scoppio della crisi internazionale.
Nella prima parte, che va dal 2002 al 2008, si registra una forte espansione del gettito fiscale (+26,8%), grazie soprattutto all’inasprimento dei tributi regionali e locali. Inasprimento che è essenzialmente una conseguenza della devoluzione di ampi poteri al sistema delle autonomie, anzitutto in materia di tutela della salute. In tale contesto vale la pena rilevare che nel periodo in esame il gettito delle imposte delle amministrazioni regionali e locali è complessivamente aumentato di oltre il 46%, avendo segnato un +94,2% le imposte dirette (addizionali Irpef, tasse automobilistiche ecc.) e un +31% le imposte indirette (Irap, Ici ecc.).
Nella seconda parte, che va dal 2008 al 2015, il prelievo mostra invece un significativo rallentamento (+5,4%), solo perché l’impatto della recessione su redditi, consumi, risparmi e investimenti ha sottratto al fisco un’ampia base imponibile. Trainata dal maggiore gettito delle accise e dal rialzo nel 2011 e nel 2013 dell’aliquota Iva, la pressione fiscale ha comunque continuato a correre a ritmo molto sostenuto, attestandosi nel 2015 su un valore (43,4%) superiore di quattro punti alla media degli altri paesi europei (39,4%).
Cumulando le variazioni annue, è possibile evidenziare i dieci tributi il cui gettito si è accresciuto maggiormente nel periodo 2002-2015. Come si rileva dalla lettura dei dati contenuti nella tabella allegata, al primo posto della graduatoria in esame figura l’imposta sull’energia elettrica e le fonti rinnovabili (con uno sbalorditivo +377,5%), al secondo posto l’addizionale comunale all’Irpef (+298,9%), al terzo l’addizionale regionale all’Irpef (+129,8%), seguita da lotto e lotterie (+105,7%), bollo (+82,7%), pubblico registro automobilistico (+45,8%), Irpef (+35,9%), tabacchi (+34,3%), Iva (+26,5%), tasse auto a carico delle famiglie (+25,5%). Per farsi un’idea di quanto sia aumentata l’incidenza di questi tributi, basti rilevare che, nello stesso periodo di tempo, il reddito nazionale (al netto degli ammortamenti) ha messo a segno un +17,9% a prezzi correnti. 

Pressione fiscale in calo
Nei primi giorni dell’anno i media hanno dato ampio risalto ad alcuni dati del conto trimestrale delle amministrazioni pubbliche elaborato dall’Istat. Ebbene, dalla lettura di questi dati è emerso anzitutto che, nel terzo trimestre del 2016, la pressione fiscale si è attestata in Italia al 40,8%, avendo accusato un calo di 0,2 punti rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Naturalmente si tratta di una notizia positiva, soprattutto perché conferma le tendenze riduttive rilevate anche nel primo e nel secondo trimestre del 2016. Tuttavia non si può fare a meno di notare che di questo passo ci vorranno almeno 20 anni per portare la pressione fiscale del nostro Paese al livello degli altri paesi europei. E purtroppo, come diceva Keynes, “in the long run we are all dead”…

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