L’Italia al bivio: a filo diretto con Carlo Calenda

Manageritalia intervista l’europarlamentare e leader di Azione. Una discussione sulla crisi profonda legata all'emergenza sanitaria mondiale e sulle possibili vie d’uscita. Dal ruolo dell’Europa al management. Occorre agire al più presto, prima che sia troppo tardi

L’emergenza virus è uno tsunami impensabile, come ne usciamo?
Con una grande chiamata alle armi. Preferisco non commentare la gestione dell’emergenza sanitaria, non l’ho mai fatto dall’inizio della crisi. Ma sul fronte economico il governo ha fatto poco e tardi. Chi oggi è al timone non deve pensare di essere autosufficiente. Vanno coinvolte tutte le persone capaci, mettendo al lavoro le migliori competenze che ci sono nel paese, perché l’economia italiana non è in grado di affrontare la terza recessione in dieci anni.

Abbiamo bisogno dell’Europa?
Il Quantitative Easing della Bce è fondamentale e ci consente di pagare gli stipendi e le pensioni. Ma manca ancora un’altra parte: un grande piano comune di rilancio economico gestito dalle istituzioni europee che aiuti tutti gli stati membri, non solo l’Italia. L’Eurogruppo ha mosso un primo passo in questa direzione con il fondo da 500 miliardi, ma i dettagli di questo fondo, a partire da come sarà finanziato, rappresentano una partita decisiva. Anche per l’Italia.

E gli Eurobond ci servono?
È a questo che mi riferisco. Ma va detto con chiarezza che gli Eurobond sono strumenti che servono per finanziare l’Europa, non per finanziare l’Italia. Se l’Europa non risponde con un piano che sia valido per tutti i paesi membri quello che succederà è che il mercato interno europeo andrà a pezzi. Chi ha più soldi potrà aiutare di più, chi ha meno disponibilità potrà aiutare meno. Ripeto, gli Eurobond sono soldi da dare all’Europa. Ed è un concetto molto diverso da quello del MES, che è un prestito al singolo stato. Ora tocca ai capi di governo.

È il momento di dare veramente un’anima all’Europa?
Più che un’anima qui si parla di darle un futuro. La storia è tornata in occidente e tutti gli stati membri devono capire che serve una grande risposta comune. Due settimane fa abbiamo scritto con sindaci e governatori di regioni in prima linea contro l’emergenza una lettera al principale quotidiano tedesco, Faz, per ricordare ai tedeschi che questo è il momento di abbandonare gli egoismi nazionali e stare dalla parte giusta della storia. Il progetto europeo si basa sulla solidarietà fra paesi, di cui la Germania stessa ha usufruito in passato. Il dibattito oggi è aperto, anche tra i tedeschi. Vedremo se i leader saranno all’altezza della situazione.

In attesa di riprendere l’attività, anche parzialmente, che facciamo?
Ci prepariamo a ripartire e impariamo da quello non ha funzionato. Sento spesso dire che usciremo migliori, per miracolo, da questa crisi. Io dico che ne usciremo a pezzi se non maturiamo la consapevolezza che il Paese deve cambiare, perché se noi saremo gli stessi la situazione intorno a noi invece sarà molto peggiorata. Basta vedere le scemenze che sono state dette da una parte e dall’altra sul MES per capire che la politica non ha dimostrato una maggiore serietà in questo momento, iniziamo a pretenderla.

Aspettiamo Godot o ci muoviamo subito?
Ripeto: qui non si tratta di aspettare. Se non facciamo niente – o se anche solo facciamo il solito – Godot arriverà eccome, sotto forma di una recessione micidiale che ci costringerà a rianimare il nostro sistema produttivo. La prima cosa da fare è smettere di annunciare ogni giorno nuovi strumenti e chiedere nuove risorse, bisogna concentrarsi invece su come fare arrivare a imprese e famiglie quelle già stanziate. Il caso della cassa integrazione è emblematico, con Azione abbiamo detto il 18 marzo che il decreto Cura Italia era scritto male e andava fatto l’anticipo bancario, altrimenti non sarebbe arrivata in tempo. Il governo ci è arrivato dopo 10 giorni ed è ormai chiaro che i soldi non ci saranno entro il 15 aprile. Meno annunci e più gestione.


Lei ha detto che per riavviare l’economia servono manager ed esperti. Cosa intende?
Anche qui, come su molto altro ci ritroviamo nella posizione frustrante di dire che “l’avevamo detto”. Giorni fa abbiamo inviato una proposta di modello organizzativo per gestire la riapertura composto da manager ed esperti e coordinato dai leader di maggioranza e opposizione tenendo tutti a bordo per arginare il circo politico, che non si mai è fermato. La task force guidata da Colao, manager di altissimo livello, arriva tardi ma va in questa direzione. La preoccupazione però è che resti l’ennesimo comitato di idee se non avrà poteri esecutivi.

Manageritalia e Cida potrebbero essere della partita?
Certo, l’unico modo di uscirne è coinvolgere persone competenti che hanno esperienza nella gestione di organizzazioni complesse. Ma al netto del gruppo formato dal governo, il sistema produttivo e la macchina pubblica dovranno ragionare come se fossimo tutti in una task force, oltre i soliti schemi. Come se uscissimo da una guerra, con una grande opera di ricostruzione economica.

Nel disastro si intravvedono alcune opportunità, come sfruttarle?
La prima opportunità è quella di far arrivare rapidamente la liquidità necessaria alle imprese per essere certi che ci siano ancora tra qualche mese e fare le cose con un criterio. Non ha senso, ad esempio, offrire garanzie alle imprese per finanziarsi se con quei soldi devono pagare entro il 30 giugno gli adempimenti fiscali. Stiamo parlando di quasi 11 miliardi di euro solo di Irpef, ritenute d’acconto e Iva sospese a marzo e aprile, oltre ai soliti adempimenti di giugno. Non possono essere chiesti ora, mentre l’economia è congelata, e non basta rateizzare. Superata questa crisi, come ho già detto, non potremo tornare a ragionare come prima, le aziende cinesi stanno già sostituendo le nostre nelle catene produttive rimaste aperte e c’è il rischio di acquisizioni predatorie del Made in Italy strategico. Il golden power, che già sotto il governo Gentiloni avevamo rafforzato, è uno strumento essenziale per difendere produzioni e brevetti e va usato.

L’annullamento obbligato della burocrazia ha imposto cambiamenti dei quali parliamo invano da anni. Cosa trarne?
Il dl Cura Italia ha introdotto deroghe per la protezione civile e il commissario straordinario sia al testo unico dell’edilizia che al codice degli appalti, perché l’emergenza ha bisogno di risposte veloci. Parlo non solo del sostegno agli ospedali e alle regioni con la creazione di strutture sanitarie temporanee, ma anche per l’approvvigionamento dall’estero di forniture medicali – dalle mascherine ai respiratori – avere la possibilità di ordinarle con un’email è essenziale perché serve per battere la concorrenza internazionale. E chi si prende queste responsabilità come il commissario straordinario dovrebbe avere anche la tutela di uno scudo penale. Detto questo, non possiamo pensare che la burocrazia vada abolita, anzi, dobbiamo ricostruire un rapporto virtuoso fra Pa e politica: da una parte semplificando le procedure e se serve commissariando i progetti – penso ai cantieri delle opere pubbliche e strategiche bloccati da anni – dall’altra con una classe politica che non si occupa solo di lanciare infiniti fondi fino alla conferenza stampa ma di spendere i soldi gestendo il processo fino alla fine.

Dobbiamo agire subito e sostenere tutti, ma poi vogliamo smetterla con gli investimenti a pioggia?
È esattamente quello che dicevo prima. Gestione significa selezione degli investimenti e capacità di spesa. Quando sono arrivato al Mise ho trovato 10 miliardi di fondi non spesi, lasciati perenti nella casse del ministero: c’erano più fondi per le startup che startup! Ne abbiamo recuperati 7,5 e trasformato gli incentivi a bando in incentivi fiscali diretti alle imprese, come l’iperammortamento, ma li abbiamo indirizzati solo alle aziende che innovavano. In futuro dovremmo continuare in questa direzione: premiare fiscalmente le imprese che investono in tecnologia e ambiente. Oggi però la situazione è diversa: si tratta di salvare le aziende dall’estinzione a causa di mancanza di cassa, per cui l’approccio helicopter money è quello che ci vuole.


Non è meglio puntare sulle aziende, settori e business più innovativi e a più alto valore aggiunto?
Certamente, ma il tessuto industriale italiano è fatto da un 20% di aziende in crisi – più o meno conclamata – irreversibile, 60% in equilibrio e un altro 20% di eccellenze. Non possiamo pensare che basti puntare sulla nicchia di eccellenza, bisogna dare gli strumenti anche alla maggioranza per patrimonializzarsi, investire, internazionalizzarsi. Con Impresa 4.0 e il Piano straordinario del Made in Italy – che portava fisicamente i prodotti italiani sugli scaffali della grande distribuzione internazionale – abbiamo provato a fare questo.

Inutile continuare a mantenere aziende zombie?
È quel 20 % che menzionavo. Uno stato forte ha il dovere di occuparsi di quelle aziende, perché, per sostenere i lavoratori che ci lavorano, è molto più veloce e efficace trovare un nuovo investitore che subentri alla proprietà in crisi e innovi la produzione che andare a formare ogni singolo lavoratore che ha perso il posto di lavoro, dargli un reddito nel frattempo e trovargli una nuova collocazione professionale tramite le complessità e inefficienze dei centri di collocamento. È quello che è successo con la Saxa Grestone di Frosinone, nata dalle ceneri della Ideal Standard, che si è convertita anche con il sostegno del Mise a prodotti di punta e innovativi – partendo da una crisi drammatica, in cui gli operai hanno tenuto duro perché volevano lavorare, non prendere sussidi.


Nella inequivocabile tragedia, potremmo trovare la forza per far fare alla nostra economia quel salto da troppo tempo mancato?
Ripeto, non illudiamoci: la tragedia non è catartica di per sé. O i cittadini decidono che è arrivato il momento di scegliere una politica e un’amministrazione che privilegiano la concretezza, la gestione, il risultato alle discussioni che abbiamo visto fino a poco fa su nutella e pieni poteri, fascisti e antifascisti, immigrati e porti aperti… oppure non cambierà nulla, semplicemente saremo più fragili economicamente e ancora più esposti a una crisi non solo politica ma anche sociale, in cui rischiano di dividerci in tribù ideologiche.


Ne usciamo e costruiamo meglio il futuro con più o meno stato nell’economia?
Uno stato forte fa questo: investe e protegge. Investe sulle priorità, che sono a livello privato innovazione e ambiente e a livello pubblico scuola e sanità, e protegge i cittadini dalle transizioni industriali in cui globalizzazione e tecnologia vanno più veloci della società, determinando delocalizzazioni e disoccupazione. E nel frattempo prova a evitare di sprecare risorse nazionalizzando aziende come Alitalia o facendo scappare investitori internazionali come Arcelor-Mittal. Lo stato deve essere forte nel suo perimetro, non invasivo. Ci ho scritto un libro sopra, Orizzonti Selvaggi, in cui analizzo questa dicotomia fra stato e società e suggerisco delle soluzioni per richiudere la frattura.

Che sia la volta buona che in Italia torni a contare competenza, merito… ?
In questo momento la priorità è quella di affrontare l’emergenza e definire una strategia seria per la riapertura, basata sull’evidenza scientifica invece di sparare date a caso per raccogliere consenso politico e basata sulle competenze delle migliori risorse manageriali e scientifiche che abbiamo in Italia. Dalla fine dell’emergenza, se la maggioranza di questo paese – quella che io chiamo “l’Italia seria”, che ogni giorno lavora, studia e si impegna – non si mobilita, non solo chiedendo di più alla politica ma impegnandosi in prima persona, temo che ne usciremo a pezzi.


Managerializzare le nostre imprese è determinante per competere, vero?
Da ministro ho visto aziende familiari competere e vincere su ogni mercato e aziende familiari fallire sotto la complessità del passaggio generazionale. Non c’è quindi una regola scritta ma è evidente che avere un processo definito di gestione e una maggiore accountability di chi gestisce aiuta a evitare errori, valorizzare risorse, compiere scelte strategiche. E questo si determina più facilmente laddove la proprietà è slegata dalla amministrazione, insomma dove il tasso di managerializzazione è elevato. Per favorirlo serve aiutare le imprese a crescere e patrimonializzarsi. Penso all’Ace e ad altri incentivi a investire gli utili in azienda, a internazionalizzarsi – vedi il Piano Made in Italy e i temporary export manager – e dotarsi di tecnologia.

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