L’Italia non è un paese per startup

Verrebbe quasi voglia di dire che non siamo un Paese Up (up to date, direbbero gli inglesi), ma siamo abbastanza o molto down.
Noto che non siamo un paese per giovani, dopo il gran clamore che da tempo facciamo sulle startup, alcuni dati paiono dire che non siamo neppure un paese per startup.
Un dato freschissimo dice infatti che gli investimenti in start up sono stati negli ultimi sei mesi di 2,4 miliardi di dollari nel Regno Unito e di soli 72 milioni di dollari in Italia. Un gap, quello verso la perfida Albione, che non è solo di carattere finanziario (sappiamo tutti che loro sono la capitale finanziaria d’Europa e una delle principali del mondo), ma è anche legato alla facilità con la quale si apre e si gestisce un’azienda, la leggerezza della burocrazia e i costi relativi.

Allora serve rimboccarsi le maniche e spremersi le meningi perché in Italia quello delle start up non sia quasi solamente un cavallo da cavalcare, ma invece diventi un reale motore di sviluppo economico. Bisogna rafforzare e aumentare quello che c’è.
Perché se è vero, e questo è sempre vero, che siamo un paese di creativi e abbiamo belle idee, oggi sempre di più le idee se non trovano un ecosistema capace di dar loro le gambe e non di tagliargliele sfumano. Non nascono neppure, sfumano o non riescono a rafforzarsi e affermarsi. Perché se è insito nel concetto di startup, ancor più se innovativa, che poche saranno quelle che sopravviveranno e prolifereranno non possiamo alzare volontariamente ancor più questo tasso di mortalità. Soprattutto poi far sì che quelle buone che abbiamo ce le comprino gli altri, che potrebbe anche essere un bene, e se le portino via. E poi bisogna anche che quelle buone possano crescere e diventare grandi, perché di buone ce ne sono.
Insomma, se non vogliamo che alla fuga dei cervelli si affianchi quella delle startup dobbiamo dar loro ragioni per poter crescere e stare e magari attrarne anche dall’estero.

Per esempio, oltre alle tante e lodevoli iniziative già in atto, c’è anche il fatto che oggi molti manager lasciano o perdono l’incarico e avviano nuove aziende, spesso vere e proprie startup tecnologiche o che ideano nuovi modelli di business per soddisfare nuovi bisogni o vecchi bisogni in modi diversi. E in questo caso il fatto che lo startupper sia un manager è un plus. Perché le startup, per continuare a fare up, devono poter contare proprio e tanto sul fattore manageriale. Tant’è che Manageritalia a Milano e in varie parti d’Italia ha gruppi di manager che donano volontariamente le loro competenze a far crescere startup profit o del terzo settore.
Però, serve che si crei un sistema che dia anima e corpo alle tante iniziative, perché solo così si dà vita a un vero e utile ecosistema.

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