Ho vissuto trent’anni all’estero, più di metà della mia vita. Sono un cittadino glocal: poco global, tanto local. Sono attaccato alle mie origini – la meravigliosa striscia di terra tra Bologna e Imola, la mitica Via Emilia –, ma ho conseguito un MBA with Honors all’Harvard Business School di Boston e poi ho lavorato in Europa, Stati Uniti, America Latina e Asia.
Ancora oggi mi divido tra Emilia Romagna, Boston, Bangkok, Monaco di Baviera e Hong Kong. Mi sono sempre interfacciato con stranieri e non sono mai stato «un italiano all’estero» nel senso tradizionale.
Nel gergo internazionale si dice: «When in Rome, do as the Romans do». Da parte mia, l’ho fatto non solo nella Città Eterna, quando lavoravo con il professor Romano Prodi, allora presidente dell’IRI, ma ho interpretato autenticamente l’espressione ovunque mi trovassi. Ho vissuto all’estero con i locali, cioè con quelli che ai miei occhi sarebbero potuti apparire come «stranieri». Il lavoro mi ha poi spinto a documentarmi, a rapportarmi con stili diversi, abitudini all’apparenza sconcertanti, e in definitiva a trattare con chi, dal proprio territorio, poteva giudicare me e il mio Paese di origine. Ritengo quindi di poter offrire un quadro ragionato sulla percezione dell’Italia all’estero, e questo libro è il frutto di una riflessione intrisa di competenze e di conoscenze in proposito. È un bagaglio di nozioni legate da un filo di idee conclusive e non preconcette. Ci sono valutazioni che vanno oltre le rilevazioni statistiche, le quali, sebbene spesso valide, talvolta sono insufficienti e altre addirittura fuorvianti. Se non fosse così, i musei italiani sarebbero i più visitati al mondo, le rovine di Pompei le più sicure e i centri storici delle nostre città i più attrezzati. Gli uomini preferiscono le bionde, recitava il titolo di un vecchio film, ma poi sposano le more. L’Italia è percepita come il più grande serbatoio culturale del mondo, ma poi i turisti, gli intellettuali e gli studiosi preferiscono la Francia. Detto questo, confermo quello che spesso si dice in patria, e cioè che siamo un popolo molto invidiato.
All’estero, lo stile di vita di noi italiani è preso a modello; la maggior parte degli stranieri pensa che lavoriamo poco, abbiamo ottimo cibo e bellissime spiagge. Questo è il classico stereotipo: «In Italia vivono bene, anzi, fin troppo bene!» L’accanimento dei tedeschi contro di noi è dovuto proprio a questa visione. Per loro siamo ricchi, lavoriamo poco e, dulcis in fundo, non paghiamo le tasse! In effetti c’è del vero: siamo oggettivamente il Paese più bello del mondo, con attrattive naturali senza pari.
Sì, ci invidiano in tanti: i giapponesi sono ricchi ma vivono come sardine, molti cinesi sono ricchi ma respirano un’aria totalmente inquinata e la parte ricca degli americani abita in città anonime. Insomma, tutti vorrebbero vivere in Italia.
Esiste una vera e propria attrazione fatale per il nostro Paese, ma è superficiale. Gli stranieri pensano che viviamo meglio di quanto sia in realtà. Nel mondo, l’immagine dell’italiano è quella degli spot commerciali: per esempio, un ragazzo seduto a bere un bicchiere di vino con la sua fidanzata nel centro di Todi, non il milanese di Quarto Oggiaro; oppure, affascinanti ragazze che passeggiano a Roma per Via dei Condotti, non a Centocelle.
Così, quando qualche straniero decide di trasferirsi qui scopre l’amara e dura verità. L’Italia non è quell’agognato paradiso che aveva immaginato, e quando inizia a lavorare e i suoi figli entrano nelle nostre scuole il suo sentimento passa dall’amore all’odio. Odio per la nostra terrificante burocrazia, per i disservizi della nostra scuola pubblica e per tanti altri aspetti della vita quotidiana.
Quella che dobbiamo estirpare dalla nostra mente è l’idea che tutti gli stranieri non vedano l’ora di essere come noi: non è così! Noi italiani non siamo, e soprattutto non veniamo considerati l’ombelico del mondo. Da dove nasce questa convinzione? Dal fatto che scambiamo i sogni con la realtà. Ci piace pensare che tutti gli italiani frequentino favolose università, visitino bellissimi musei, suonino strumenti, vestano Armani, leggano il Financial Times, mangino ogni giorno tagliatelle fatte in casa e bevano i vini migliori comprati a un prezzo accessibile, camminino in centri storici immacolati, assaporino il miglior caffè e, ovviamente, siano impiegati in settori gratificanti come il fashion design. E ci piace anche pensare che gli altri, gli stranieri che ci giudicano, siano condannati dal tempo inclemente e dal grigiore delle fabbriche dei loro Paesi. Siamo convinti che, appena possono, vengano in Italia a godere del sole e delle spiagge, a mangiare la pasta al dente, a divertirsi con i giovani nelle discoteche della Riviera.
Questa idea, in declino ma dura a morire, è profondamente sbagliata, controproducente e superficiale. Nell’opinione della gente comune, l’Italia è uno straordinario laboratorio di beni di consumo. Si ritiene (con fondatezza) che nel nostro Paese si concepiscano i migliori articoli per allietare la nostra quotidianità. Due sono i macrosettori più conosciuti del cosiddetto Made in Italy: il sistema casa e il sistema persona. Al primo appartengono i marmi, le piastrelle, i mobili, l’illuminotecnica, i rubinetti e le macchinette per il caffè. La venerazione per questi prodotti si nota nella gente semplice che si incontra appena entrati nel Paese: dal doganiere al poliziotto, dal tassista al direttore dell’albergo, tutti amano l’Italia attraverso i suoi prodotti.
Al secondo macrosettore, il sistema persona, appartengono le aziende del tessile, abbigliamento, calzature, pelletteria, e la gioielleria. Se si aggiungono i prodotti alimentari e la cucina, la cornice è completa. L’Italia sembra un Paese con una qualità della vita straordinaria: invidiato, apprezzato, blandito, imitato.
Ma questo quadro ha bisogno di molte correzioni. Innanzitutto, non tutto il Made in Italy è frutto di solo ingegno. Nei prodotti che usiamo ci sono fango, sudore e lacrime. Scomodiamo Michelangelo per ogni sciarpa e Raffaello per ogni cravatta, ma ci sono anche le operaie alle macchine, i custodi dei magazzini, gli autisti dei camion, i contabili dei bilanci. Sono queste persone che rendono praticabile un sogno e vincente la
scommessa della qualità, del «bello fatto bene».
Pensiamo che il genio sia ispirazione, ma spesso è disciplina. All’estero ci riconoscono soprattutto la prima, quasi mai la seconda. E poi non bastano le merci a suscitare ammirazione, o un tramonto spettacolare a generare imitazione. La qualità della vita è fatta anche di altri fattori. Noi li sottovalutiamo, all’estero li migliorano. È meglio un palazzo storico e fatiscente del Settecento o un edificio pulito del Novecento? Preferiamo un parcheggio selvaggio con le ruote sul basamento di un’antica fontana o un’isola pedonale confortevole e rispettata? Non sto esagerando, è la semplice visione delle cose che impone queste
riflessioni.
Prendiamo il rapporto tra gli statunitensi e le opere d’arte.Visitando le gallerie americane prevale il senso della collezione privata. Ricchi e incolti capitalisti celebrano il proprio successo con acquisti indiscriminati di opere d’arte. Sublimano la loro mancanza di storia con capolavori che non sono il frutto della loro vicenda. Nelle sterminate praterie o in costruzioni ultramoderne collocano tesori di altri tempi. Si impadroniscono della cultura senza averla vissuta. Noi invece… Lo state pensando, vero? Noi invece cosa?
I nostri musei sono chiusi per mancanza di personale mentre i giovani laureati in architettura e archeologia non trovano lavoro. Capolavori immensi giacciono negli scantinati, riposano sotto la polvere, nascosti al pubblico e non ancora catalogati.
Sarebbe facile ricordare la gestione di Pompei, ma poniamoci una domanda senza retorica: chi ama le opere d’arte? Chi le valorizza? Un Paese che le fa marcire nelle cantine, ne impedisce la vista, fa moltiplicare le ragnatele sui quadri e lascia rubare le tele nelle chiese, oppure chi, non avendo nulla di tutto ciò, le acquista, le mantiene, le espone, le rende fruibili?
Nel mondo i musei sono organizzati, visitabili e con personale adeguato. Per vedere gli straordinari capolavori italiani spesso bisogna viaggiare all’estero. Forse è ora di smettere di considerare gli altri come dei buzzurri arricchiti in confronto a noi italiani grondanti arte e cultura.
Quindi chi ama di più le opere d’arte? Se non ci facciamo travolgere da pregiudizi e orgoglio ferito, sappiamo bene che la risposta non è quella più scontata. La verità è un’altra, ed è lampante: per un giovane storico dell’arte è più facile trovare lavoro all’estero, anche e soprattutto per la sua competenza sui capolavori italiani.
In parte, lo stesso ragionamento si può applicare alla gastronomia. L’Italia non riesce a proteggere i propri prodotti, ingabbiati come sono in sigle incomprensibili, ma il problema non è solo questo. Chiudete gli occhi e immaginatevi in una grande metropoli estera. In un angolo troverete uno Starbucks e in una via del centro un Pizza Hut. Cosa significa? Semplice: con due prodotti culinari tipicamente italiani – l’espresso e la pizza –, hanno fatto i soldi gli altri. La pizza è ormai associata ai grandi marchi e appartiene alla «cucina internazionale», dove ogni abbinamento è possibile. Il caffè e il cappuccino sono bevande che si bevono in formato small, medium o large e si consumano a ogni ora del giorno.
Non esistono catene di ristoranti italiani di proprietà italiana con presenza capillare nel mondo. I menu che si trovano in centinaia di città all’estero sono italiani, i nomi delle portate sono mal pronunciati da volenterosi camerieri stranieri e i prodotti hanno un italian sounding. E non ci sarebbe nulla di male, se non fosse che i profitti non vanno nelle tasche dell’Italia.
Perché? Perché non siamo capaci di «ingegnerizzare» le cose. Non siamo bravi a organizzarci. Viviamo di talenti singoli. Le nostre bellezze sono sempre figlie di qualcuno: dello chef che non può gestire più di un tot di ristoranti, o di un particolare stilista che quando morirà vedrà finire la sua creatività.
I nostri successi non sono replicabili su scala planetaria e in modo autorevole. Sono successi legati alla persona: nella ditta di famiglia – fabbrica, negozio o locale – deve essere presente il «padrone». È triste dirlo, ma quando al timone arriva il figlio dell’imprenditore illuminato, spesso è un disastro. Gli americani, invece, quando trovano una buona formula la replicano. Noi non ci riusciamo, a parte rarissimi casi.
Se osserviamo con occhio critico la ristorazione «italiana» all’estero, vediamo che il suo prestigio e la sua nomea rendono ricchi i più intraprendenti. Allora riformulo la domanda: chi ama il Made in Italy alimentare?
Chi lo dissipa o chi, arricchendosi, lo diffonde? Se riuscissimo a non farci travolgere, anche in questo caso, da insani pregiudizi e inutile orgoglio e accettassimo la seconda opzione, potremmo porci anche un’altra domanda: se uno è cuoco, sommelier, cameriere o maître, perché non dovrebbe cercare lavoro all’estero?
Vi offro uno spunto di riflessione: a New York i migliori ristoranti sono italiani, a Tokyo la loro qualità è leggendaria, a Shanghai vendono parmesan cheese prodotto in Australia, nel Golfo i pizzaioli sono bengalesi. Non sono queste opportunità di lavoro? Una o due generazioni fa si iniziava da camerieri in Germania per poi aprire i ristoranti più chic lungo il Reno.
Non è solo l’origine a determinare la qualità, né il luogo di produzione a fare il «tutto esaurito». Non basta la bellezza per essere attraenti, bisogna offrire comfort e sicurezza. Anche poter parcheggiare l’auto è qualità della vita, così come ottenere una ricevuta o un conto adeguato.
Esiste infine un altro aspetto del Made in Italy che non crea lavoro in Italia e si esaurisce con la percezione dei beni di consumo. «Made in Italy» sono anche i torni, i trapani, le macchine tessili. Gli straordinari beni di consumo italiani non sarebbero possibili senza l’industria che fornisce i macchinari per la trasformazione delle materie prime. Un patrimonio inestimabile ha dato linfa all’export italiano, una miscela sapiente di tecnici, ingegneri, operai specializzati. Questo è stato il nerbo del miracolo italiano: fare prodotti affidabili, durevoli e di qualità a prezzi contenuti. Tale tesoro, spesso trascurato a favore del più accattivante – oggi si direbbe «glam» – italian style, è poco conosciuto all’estero. A esclusione degli addetti ai lavori, pochi identificano l’Italia con la meccanica strumentale. E questo è un grave errore.
L’opinione pubblica internazionale tende a relegare l’immagine del nostro Paese agli stereotipi della moda, dell’alimentazione o del campionato di calcio, ma la nostra economia è quella delle fabbriche sempre attive, dei distretti e dei tanti piccoli e medi imprenditori che lottano tutti i giorni. Le nostre facoltà di ingegneria, a partire dall’eccellenza del Politecnico di Milano, ogni anno valorizzano talenti indiscutibili, e la moda e il cibo sono una voce minoritaria della nostra esportazione. Tuttavia, abbiamo preferito diffondere il fascino della lingerie piuttosto che la complicazione di un centro di lavoro a controllo numerico.
Oggi la meccanica incontra un doppio ostacolo: la recessione in casa e la concorrenza dell’Asia. Ovviamente, i due fenomeni sono collegati. Cosa possono fare, dunque, un fresatore, un ingegnere o un meccanico? Seguire il lavoro dov’è disponibile.
Quindi all’estero.