Economia della nostalgia, marketing del vintage, retro-marketing. Le definizioni sono tante ma il concetto è lo stesso: puntare sul passato per meglio vendere al presente. C’è chi ripropone vecchi prodotti, ovviamente perfezionati e adattati all’epoca contemporanea. C’è chi “riesuma” personaggi un tempo famosi e poi caduti nel dimenticatoio. Oppure chi concentra l’attenzione su pratiche sociali o momenti generazionalmente decisivi.
Un tuffo nel passato
Un esempio interessante arriva da Nintendo. L’azienda ha di recente lanciato una nuova versione della sua storica console Nes (Nintendo entertainment system), introdotta per la prima volta sul mercato nel 1983. La nuova Nes è più piccola dell’originale ed è nettamente migliore in termini di caratteristiche tecniche. Tuttavia ha preinstallati gli stessi giochi che andavano di moda negli anni 80, come Super Mario Bros. Un modo per attirare quei consumatori che 40 anni fa giocavano con la loro prima console. E – come recita lo spot diffuso su YouTube – un modo per far fare loro un tuffo nel passato, in quel periodo aureo che, almeno nel ricordo, è l’infanzia.
Brand e marketing rétro
Il fenomeno è particolarmente evidente nella moda, dove – complice il successo dello stile hypster – sono tornati in auge brand del passato. Si va da Champion, grande nome dello sportwear americano ricomparso sulle t-shirt dei teenager, a Roy Rogers, marchio italiano di jeans fondato alla fine degli anni 40 e diventato famoso negli anni 70. Senza dimenticare Stone Island, oggi un nome di riferimento per molti protagonisti della scena hip hop contemporanea. I suoi capi sono stati indossati da Drake, una delle persone più influenti dell’industria musicale, e da Vince Staples, tra i più apprezzati rapper della nuova generazione. Il risultato è un fatturato in crescita vertiginosa (in 5 anni è aumentato del 100%) e un posto nella top ten dei brand più hot del 2017 stilata dalla rivista Business of fashion.
Il retro-marketing non risparmia il food. Anche in ambito alimentare sono stati infatti ripescati prodotti del passato, la cui distribuzione era stata interrotta da anni. È il caso di Winner Taco: il gelato, popolare negli anni 90, era stato eclissato da referenze considerate maggiormente in linea con le esigenze dei consumatori. Ora è tornato e viene consumato sia da chi lo mangiava da piccolo e vuole riprovare le emozioni del passato, sia da chi all’epoca non era neppure nato ma, magari, ne ha sentito parlare dai genitori o dai fratelli maggiori. Sì, perché di fatto questi prodotti giocano su un duplice livello. Da una parte attirano i più adulti che li conoscevano (e consumavano) in passato e sono alla ricerca della loro personale “madeleine proustiana”. Dall’altra parte incuriosiscono i più giovani, che ne hanno memoria indiretta, grazie al racconto degli adulti. Sicuramente ci sarebbe spazio per altri ripescaggi, come dimostra il successo riscosso dalla pagina Facebook “Rivogliamo il Soldino del Mulino Bianco”, nata con l’intento di convincere l’azienda a rilanciare la merenda al cioccolato. Del resto chi di noi non ha un prodotto del cuore, indissolubilmente legato al ricordo della merenda pomeridiana o dell’intervallo a scuola?
Perché ci rivolgiamo
al passato
Le ragioni alla base di questo
boom sono almeno tre. In primo luogo c’è l’effetto nostalgia. Poiché il presente (e, ancora di più, il futuro) appare incerto, ci si rivolge al passato, che in quanto tale, è soffuso di un alone magico. Ciò che abbiamo mangiato, acquistato, provato 10, 20, 30 anni fa ci appare, nel ricordo, migliore: il cibo aveva un altro sapore, gli abiti una qualità più elevata, i film una sceneggiatura più solida. Il passato è l’arcadia felice, l’età dell’oro. E anche un ottimo sistema per vendere i prodotti che affiorano nel ricordo. In seconda battuta c’è il tema della fiducia. Se un brand è sopravvissuto nel tempo significa che non ha né deluso i suoi consumatori né tradito la loro fiducia. Vale per la Fiat 500, modello introdotto nel 1936 e oggi riproposto seppur adattato ai comfort moderni, per la Vespa – che continua a essere il mezzo a due ruote più ambito dai teenager – e per gli occhiali Ray-Ban. Ovviamente non funziona per tutti i marchi: è fondamentale essere un brand che ha attraversato indenne i decenni, senza incorrere in scandali o in episodi spiacevoli. In caso contrario l’effetto rebound è dietro l’angolo.
In terza istanza c’è l’aspetto dello storytelling. Guardare al passato significa avere (già confezionata, pronta) una storia da raccontare. Non solo: spesso si tratta di una storia nota che molti consumatori conoscono o nella quale possono riconoscersi. Da un punto di vista strettamente economico, è un bel risparmio: non occorre investire risorse per inventare qualcosa di nuovo. Basta raccontare – magari utilizzando le piattaforme digital (come i social network e le app) – ciò che è accaduto. Il sistema funziona soprattutto per le marche ben radicate nell’immaginario collettivo di una generazione o di un gruppo, poiché possono più facilmente fare leva sull’identificazione. Emblematico è in tal senso il recente revival dei prodotti che erano stati propri dei “paninari”, subcultura che negli anni 80 si diffuse da Milano al resto del paese. Capi ispirati a quegli anni (come il bomber colorato, la cintura con la macro fibbia in metallo, oppure le felpe con il nome della marca in evidenza) sono tornati nei negozi e sulle passerelle. Miu Miu, Saint Laurent e Sacai – giusto per fare qualche esempio – hanno fatto sfilare piumini ipercolorati e bomber dal maxicollo simili a quelli indossati dalle protagoniste del film “Sposerò Simon le Bon”.
Non solo beni di consumo
Il fenomeno non riguarda solo i beni di consumo ma investe anche il mondo dell’entertainment. Nel 2017 ci sono stati 34 remake e spin off di vecchi film e serie televisive, tra i quali Twin Peaks, Dinasty, Blade Runner e Star Wars. Allo stesso tempo, negli ultimi anni Netflix e Fox hanno lanciato serie “Eighties” come Stranger Things, Snowfall, Glow e The Americans. Il servizio di musica in streaming Spotify ha lanciato la playlist “Macchina del tempo”: 30 canzoni selezionate da un algoritmo in base alla data di nascita dichiarata al momento dell’iscrizione. I super eroi Marvel (Iron Man, Spiderman, Capitan America), nati quasi tutti negli anni 60, sono i protagonisti dei blockbuster degli ultimi tempi.
Anche la televisione ha puntato su trasmissioni dal sapore rétro. Il “Rischiatutto” di Mike Bongiorno è stato rifatto con accuratezza filologica da Fabio Fazio. “Nemica amatissima” ha riportato in auge lo scontro tra le eterne rivali Lorella Cuccarini e Heather Parisi, mentre Renzo Arbore ha fatto il picco di share con la versione aggiornata di “Indietro tutta”. Nicola Savino ha invece ideato (e presentato) “90 Special”. Il programma – il cui sottotitolo recita “Che ne sanno i 2000?” – è un viaggio tra i personaggi, la musica e i giochi dell’ultimo decennio del secolo scorso.
La seconda giovinezza
del vinile
E poi c’è il revival del vinile. I dischi, che sembravano scomparsi con l’avvento del digitale, stanno vivendo una seconda giovinezza. La Fimi (Federazione dell’industria musicale italiana) ha stimato che negli ultimi dieci anni le vendite dei 33 e dei 45 giri siano cresciute in modo costante. Solo nel triennio 2013-2016 si è registrato un incremento delle vendite pari a l’84%, mentre il fatturato è aumentato da poco più di 2 milioni di euro a quasi 4 milioni.
Tutto bene, dunque?
Non proprio. Viene spontaneo domandarsi se le risorse spese per guardare indietro non potrebbero essere investite per guardare avanti. Certo, riproporre un format già noto (sia esso una marca, un prodotto o una storia) è meno rischioso che idearne uno nuovo: una sorta di scommessa (già) vinta in partenza. Tuttavia è anche decisamente meno creativo. Ripiegare (ripiegarsi) sul passato è un po’ come abdicare alla possibilità di costruire qualcosa di nuovo, diverso, originale. Un po’ come abdicare al futuro.