Puntiamo a un’economia più sostenibile

Il nostro Paese è in ripresa, ma per continuare a crescere serve una riflessione sul terziario e sui suoi elementi di contorno, sull’importante ruolo delle donne e sulla necessità di ripensare a nuovi modelli di consumo più sostenibili. Ne parliamo con Azzurra Rinaldi, docente di Economia politica all’Università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza e componente del comitato scientifico dell’Osservatorio del Terziario Manageritalia

L’economia italiana è in ripresa, ma la strada da fare, anche in termini di qualità di valore aggiunto e ricchezza prodotta, occupazione e retribuzioni offerte, è ancora lunga. Su cosa puntare di più per crescere?
«Sul senso. La Yolo economy (You only live once) e il fenomeno della Great resignation ci stanno dando un segnale che non possiamo ignorare. I paradigmi del lavoro e dell’espressione individuale sul posto di lavoro devono cambiare e, se vogliamo essere in grado di attrarre e trattenere i talenti e crescere qualitativamente, oltre che quantitativamente, dobbiamo rivedere il senso profondo del lavoro in azienda».

Qual è e quale deve essere il ruolo del terziario in questa crescita?
«Le economie avanzate, com’è noto, sono basate sul terziario. Per il nostro Paese, che pure torna a vedere dati in crescita, è poi necessaria un’ulteriore riflessione sugli elementi di contorno e a supporto del terziario. Penso, ad esempio, al rafforzamento della ricerca, ma anche al bisogno profondo di modernizzazione delle infrastrutture (ad esempio, per il turismo) in alcune aree del Paese».

Sud e Isole, come emerge anche dall’ultimo rapporto dell’Osservatorio del Terziario, soffrono di scarsa produttività e dimensione aziendale e anche di un eccessivo peso del terziario non di mercato. Come superare questo gap con il resto del Paese?
«Questo purtroppo è un fattore strutturale in Italia e non solo nel settore terziario. Per superarlo serve, come emerge anche dall’ultima analisi dell’Osservatorio del Terziario, aumentare il peso del terziario di mercato, che deve supportare lo sviluppo di un turismo moderno e dare slancio a tutto il settore dei servizi e dell’industria. Devono quindi aumentare quelle realtà territoriali virtuose che competono alla pari con il resto del Paese, grazie anche a capacità e competenze amministrative, imprenditoriali e manageriali. E poi serve aumentare in generale l’occupazione, soprattutto quella di donne e giovani».

Veniamo allora al contributo di donne e giovani: in tutto il Paese, ma ancor più al Sud, sono le risorse meno occupate e quindi più sprecate. Cosa fare e da dove partire?
«Partiamo intanto dalle risorse per l’imprenditoria femminile previste dal Pnrr… e dai dati sull’imprenditoria, che in realtà ci mostrano come in Italia siano proprio le donne e i giovani, spesso non valorizzati sul mercato del lavoro, a reagire creando imprese proprie. E sono imprese che resistono: secondo i dati Unioncamere, la contrazione delle imprese femminili nel 2020 è stata solo dello 0,29%».

Parlando delle sole donne, molteplici studi dimostrano che l’aumento del loro tasso di occupazione sarebbe un forte booster della crescita del Pil. Perché?
«Per vari motivi. Ad esempio, perché le attività di cura non retribuita di cui le donne si fanno carico all’interno della famiglia andrebbero esternalizzate, creando nuova occupazione e nuovo reddito. Ma anche perché le donne rappresentano un grande capitale umano che, nel nostro Paese, non viene valorizzato, dal momento che si laureano prima, di più e con risultati migliori. Ma anche perché, quando arrivano ai vertici delle aziende, portano una visione innovativa e soluzioni trasversali a problemi che sino a quel momento sono stati affrontati sempre dalla medesima tipologia di leader e nello stesso modo».

La scarsa occupazione femminile ha solo radici sociali e culturali?
«Sulla possibilità delle donne di dedicarsi a un lavoro retribuito pesano molti fattori, che ricondurrei per la maggior parte a una visione tradizionale e patriarcale della divisione di genere del lavoro di produzione (ritenuto maschile, che si svolge sul mercato del lavoro) e di quello di riproduzione (ritenuto femminile, che si svolge tra le mura domestiche)».

Come si spiega il fatto che proprio in piena pandemia, nel 2020, le donne manager sono aumentate e hanno da sole sostenuto la crescita dei dirigenti e dei quadri nel settore privato?
«Perché quando il gioco si fa duro, le dure iniziano a giocare. Ilarità a parte, credo che, essendo in qualche modo obbligate all’odiato multitasking, le donne e la loro visione siano particolarmente efficaci proprio in momenti di crisi».

Oggi parliamo tanto di sostenibilità a livello economico, sociale e ambientale. Quali cambiamenti impongono questi obiettivi ai modelli delle attuali economie capitalistiche?
«È necessario un ripensamento del paradigma. La globalizzazione, egoriferita, ci ha allontanato dal concetto invece basilare della responsabilità, anche individuale. Occorre modificare i nostri modelli di consumo, tornando a scegliere meglio e con una prospettiva di utilizzo più estesa temporalmente. E, così facendo, mandando un segnale chiaro al mercato: questo modello non è davvero più sostenibile».

Soprattutto, ma non solo, nel caso della sostenibilità ambientale, da più parti si sostiene che sia troppo costosa e non sia raggiungibile, se non con un coordinamento e cambiamento sinergico a livello globale. Cosa pensa?
«Penso sia arrivato il momento di sollevare lo sguardo dal nostro ombelico e di iniziare a pensare strategicamente quanto meno al medio periodo. E, su questo piano, credo molto nel potere del mercato (forse nello specifico, più ancora che in quello delle istituzioni, che di sostenibilità parlano senza grandi effetti dal 1972). Mi piace pensare che la rivoluzione produttiva possa partire da una profonda trasformazione della domanda».

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