La paura fa novanta, quindi iniziate a correre molto velocemente, molto più velocemente di una normale macchina intelligente, la quale, citando Jessica Rabbit, “non è poi così intelligente, è che la disegnano così”. Al pari dello squalo bianco, intelligenza artificiale e robotica continuano a terrorizzare e ad avere, direbbe un pr, un’immagine negativa. Ovvio, media, film e letteratura fantascientifica creano giorno dopo giorno un quadro cupo e inquietante: le macchine rubano il lavoro, prendono il potere e si ribellano all’umanità.
Non solo: le macchine che vincono a scacchi, backgammon e Go rafforzano la sensazione che è in corso, una lotta con le macchine che l’umanità rischia di perdere. Tutto questo allarmismo manda in paranoia lavoratori ma anche datori. Come se non bastasse, il termine “artificial intelligence” è fuorviante e crea malintesi perché lascia intendere che si vuole copiare l’intelligenza umana per sostituirla. Sarebbe molto più appropriato il termine “machine intelligence”. Le imprese devono rassicurare i dipendenti e mettere in primo piano solo i vantaggi dell’automazione. Se vogliamo evitare nuove forme di luddismo e ottenere una cooperazione ottimale tra uomo e macchina basata su una serena accettazione, allora il management deve tenere un profilo basso, ovvero diffondere il “technological understatement”: importa cosa di utile la tecnica può fare per l’impresa. Tutto qui.
Troppa esponenzialità, troppa enfasi sull’avvento di un’intelligenza superiore a quella umana. La singolarità tecnologica è forse eccitante come tema ma assai poco produttiva per l’impresa perché rafforza il modo di pensare “uomo contro macchina”. Uomo con macchina, o meglio, macchina per l’uomo (mi porta a spasso dove voglio io) è l’unico approccio sensato e anche apprezzato dai collaboratori e dipendenti. Il “noi macchine stiamo lavorando per voi” deve diventare il leitmotiv della strategia dell’HR. Il grado di accettazione si giocherà in futuro tutto sulla trasparenza: chi lavora per voi e con voi deve sapere dove viene utilizzata l’AI e per quali motivi, soprattutto devono essere chiari i vantaggi per tutti.
L’automazione produce partecipazione solo quando ogni lavoratore coglie i benefici personali e un miglioramento della propria condizione nel lavoro di tutti i giorni. Si tratta di coinvolgere tutti attivamente condividendo, dove è auspicabile, l’uso di robotica e AI. Imporre o tenere all’oscuro è sicuramente una pratica suicida. Il co-working fra macchine e persone si ottiene solo applicando modelli di economia collaborativa dal basso. Partecipo (alle decisioni) dunque sono, tranquillo.
Robot e AI devono essere considerati, almeno per i prossimi 20 anni, esclusivamente come uno strumento, un tool tecnico che prende le distanze da tutta la retorica fatta di super intelligenze e ridicoli robot umanoidi che non migliorano l’interazione tra uomo e macchina in azienda ma, anzi, lo peggiorano. Intelligenza artificiale al pari di un trapano (al massimo di uno smart speaker), dunque utile e non minaccioso.
Questo approccio elimina in un colpo solo le ansiose criticità: nessuna eccessiva aspettativa, nessuna questione etica e morale, nessun pericolo di rifiuto e nessun cambiamento fondamentale all’interno dell’organizzazione. In sostanza, imprese e manager dovrebbero concentrarsi sull’essere umano senza umanizzare le macchine. Semmai l’attenzione va posta sull’interfaccia tra uomo e macchina. Una buona user interface intuitiva e comunicazione vocale evita la frustrazione, riduce le soglie di inibizione, innesca la fiducia e produce infine collaborazione. Necessaria perché nessuna impresa può sottrarsi dall’uso sapiente del “machine intelligence”. Le aziende devono imparare dagli errori del passato poiché il cambiamento dell’automazione sta avvenendo ancora più velocemente di quello della digitalizzazione.