Un mondo senza filtri

La disintermediazione ha attecchito e coinvolgerà sempre più settori, dall'ospitalità ai trasporti, dalla finanza all'informazione. Ne parliamo con Antonio Belloni, autore del saggio Uberization (Egea)

Perché secondo lei oggi c’è sempre più voglia di disintermediazione, di avere una relazione diretta e senza filtri con la clientela?
Perché siamo in un contesto di crisi, per qualcuno di stagnazione secolare, quindi di riduzione dei consumi graduale o repentina. C’è la necessità di risparmiare, ridurre le spese, rendere tutto più semplice per il consumatore. Abbiamo due spinte. Una dal mercato e una dal consumatore. La disintermediazione è una soluzione, la più evidente perché porta velocità, immediatezza, relazione diretta col cliente, quindi è una delle promesse di efficienza che le aziende possono avere.

Tra le realtà che ha esaminato nel suo saggio e che fanno leva sulla disintermediazione, quale è oggi la più interessante e innovativa?
Ne avevo già individuata una nel mio saggio precedente, Food Economy, ed era proprio quella del food, perché la disintermediazione attecchisce in maniera felice dove ci sono delle strutture troppo lunghe, obsolete, vecchie, farraginose, complicate, quindi che rallentano il rapporto col cliente, la produzione, la distribuzione e l’informazione. Il caso del food è stato quello più semplice, di più immediata applicazione. Quello che è sotto gli occhi di tutti è il fintech, per esempio quello legato alle banche, che sono strutture vecchie, troppo grandi, troppo lente, che però ha un’applicazione più lenta e particolare perché in questo caso la disintermediazione comporta l’eliminazione diretta dei posti di lavoro. Oltre al food, il turismo è un caso emblematico con Airbnb, in cui si saltano le strutture. La disintermediazione è applicabile ovunque e in alcuni casi è utile, in altri meno utile se non addirittura dannosa. Nel libro ne ho citate due: una additiva e una sottrattiva. Additiva significa che se io tolgo un intermediario dalla catena alla fine del percorso ho aggiunto un valore, se invece io tolgo un intermediario e ho un valore inferiore, un percorso più difficile, ho una disintermediazione sottrattiva e dunque negativa. Quella additiva funziona perché ha due apporti positivi, quello per il consumatore e quello per l’azienda, dove ci sono questi due punti di favore. Anche le stesse startup sono una manifestazione di disintermediazione totale, radicale, quindi invece di tirare via un intermediario queste ripartono da zero, saltando tutti gli intermediari, qui l’azienda dialoga subito in maniera diretta con il consumatore.

Quali potrebbero essere gli sviluppi dell’uberizzazione per i prossimi anni? Fino a che punto ci si potrà spingere e quali saranno i settori maggiormente coinvolti?
I settori e i paesi maggiormente coinvolti sono quelli dove ci sono strutture lunghe, particolarmente regolate, ma anche quelli dove ci sono vantaggi competitivi artificiali, dove tu difendi una rendita di posizione, un vantaggio che prima aveva delle ragioni serie di mercato e adesso non le ha più, come nell’esempio più evidente dei taxi: anche queste filiere, questi percorsi verranno disintermediati. Ci si potrà spingere ovunque. È chiaro che il limite è aggiungere o togliere valore. Io posso intervenire anche togliendo più di un intermediario, però fisiologicamente in quello che ho osservato capita che quelli che disintermediano in maniera totale e saltano gli intermediari diventano essi stessi dei nuovi intermediari, come Google, Amazon, Ebay e Uber. Ci sono due pericoli. Il primo è la commoditization, ovvero che i prezzi delle materie prime che loro comprano, vendono e intermediano si abbassano e diventano armonizzati, normalizzati. L’altro problema è che il primo che arriva generalmente “takes all”: c’è un fortissimo rischio di monopolio di questi nuovi intermediari, proprio perché oggi avere una relazione diretta col cliente diventa un punto di valore decisivo: da qui l’importanza di chi detiene dati e informazioni del cliente.

Esistono delle zone d’ombra, delle minacce per i posti di lavoro o degli aspetti su cui è bene porre al più presto limiti e regole?
Ci sono due modi in cui si può prendere la disintermediazione. Questo è molto importante per le nostre aziende a cui stiamo parlando: tante aziende, la maggior parte, sono consapevoli di avere dei vantaggi competitivi che si sono esauriti, delle strutture troppo lente, grosse, improduttive. Sanno che la disintermediazione è sotto i loro occhi e la rifiutano, chiudono le porte a questa opportunità. Più il tempo passa e più le aziende la ricevono in maniera negativa, come un’ondata che le travolge in maniera forte, mettendo a rischio molti posti di lavoro. Occorre aiutare le aziende a capire quando sta per arrivare la disintermediazione, perché ci sono segnali deboli, può essere anticipata. Le migliori aziende, come succede col fintech, che col digitale sanno che devono cambiare, non sanno ancora come, però stanno tentando di anticiparla. Chi la gestisce? L’azienda, la struttura o l’organizzazione che riesce meglio a evitare che l’intermediario venga eliminato fisicamente. Alcune funzioni all’interno delle aziende che intermediano vengono soppresse, ecco allora che più un’azienda riesce a capire dove sono i punti deboli interni e meglio si riesce a gestire non solo le uscite ma anche il job posting e quindi a dire “io cosa faccio con questa funzione aziendale che non mi serve più?”. Il gioco sarà capire dove intervenire.

C’è chi dice “no, grazie” alla disintermediazione?
Certo, ci sono alcuni ambiti in cui le aziende rifiutano fortemente la disintermediazione. Lei pensi a cosa sta succedendo coi taxi. I taxi avevano tutti gli ingredienti per fare Uber 10 anni fa e l’hanno rifiutato perché sono consapevoli di avere dei vantaggi competitivi artificiosi che difendono la loro struttura, non hanno deliberatamente fatto entrare l’innovazione. L’altro rischio è disintermediare dove non serve, cioè togliere dei passaggi dove invece servono. Perché oggi quando si ristruttura si possono tirare via dei pezzi di azienda che sono utili, però magari sono costosi, servono, quindi l’azienda può arrivare in ritardo da una parte e lasciare che la disintermediazione del mercato le travolga e che arrivi qualcun altro e travolga questo processo, può decidere di gestirlo andando giù anche pesante, quindi sopprimendo intere parti che si rileveranno o si sono rivelate utili. Si tratta di osare. Le aziende più lungimiranti capiscono prima che cosa sta succedendo.

Ci sono nazioni più aperte di altre, differenze e peculiarità geografiche in cui l’uberizzazione è più pervasiva? Siamo di fronte a un fenomeno che travalica per sua definizione i confini di un paese e rende tutti clienti globali?
Certo, i clienti sono completamente globali. La disintermediazione è nata 20-30 anni fa negli Stati Uniti quando è cominciata la globalizzazione, quindi le catene globali del valore si sono allungate. Ora le aziende americane hanno capito che se disintermediano riescono a gestire al meglio delle catene così lunghe, arrivano, tolgono dei pezzi, le riorganizzano. La disintermediazione può arrivare dappertutto e se arriva in paesi come il nostro, occidentali, come la Francia, con strutture tipicamente lunghe, lente, grandi, vecchie, può fare del bene, sicuramente lo fa perché porta efficienza. Lei provi a immaginarsi la disintermediazione nella sanità, per esempio, non solamente nelle aziende. Nei paesi più inefficienti è chiaro che trovano maggiore utilità, però i paesi come il nostro hanno dotazioni economiche, finanziarie, culturali di mercato per gestire un fenomeno del genere e le parti rischiose di un fenomeno del genere. Ci sono invece paesi come l’Africa e l’India che assorbono la tecnologia molto velocemente, ma che però non hanno le dotazioni economiche, finanziarie e soprattutto culturali per metabolizzare e difendersi da un processo così, quindi lì davvero dei processi del genere possono essere utilissimi o fare anche grossi danni, entrando nel ventre molle di queste grandi masse di proletariato che io ho qualificato come i driver di Foodora o di Deliveroo. Se c’è una nuova borghesia delle startup, un nuovo capitalismo dei colossi del web è lì che abbiamo una nuova idea di proletariato, quindi i paesi con le spalle meno larghe dal punto di vista politico ed economico sono meno preparati a gestire questa onda di innovazione.

Lo sviluppo tecnologico ha uno stretto legame con la disintermediazione?
Guardi, la tecnologia è solo uno strumento con una funzione di redistribuzione del denaro, del potere, delle opportunità, delle gerarchie e lo fa non solo nelle economie, ma anche nella politica, nelle organizzazioni religiose come la chiesa. Sta di fatto che contribuisce a questo ciclo che è intermediazione, disintermediazione e reintermediazione. La tecnologia ridà le carte e redistribuisce le opportunità nei paesi dove questo fenomeno si riesce a comprendere, percepire, limitare e gestire al meglio. Ci sono invece altri paesi in cui questo fenomeno è di difficile gestione, appunto quelli che le dicevo prima, dove le tecnologie sono velocissime e anche positive. Lei pensi che in paesi come il Kenya o come il Sudafrica ormai c’è l’m-pesa, un servizio di pagamento utilizzato da tanti giovani attraverso il telefonino. Nasce perché queste persone non hanno dei flussi finanziari tali da gestire un conto corrente e quindi quelle disintermediate sono le banche. Lei provi a pensare a noi che riceviamo lo stipendio non sul conto corrente ma sul cellulare. Le banche morirebbero perché loro ci asciugano 60-70-100 euro all’anno soltanto di servizio di gestione conto, anche se non tocchiamo nulla. In Kenya o in Sudafrica attraverso dei sistemi semplicissimi nati col fintech, la banca non serve più, il conto corrente non viene più aperto, i soldi sono accreditati su un numero di telefono. Mentre noi siamo qui a fare gli scioperi, con una città come Roma disastrata, difendendo l’indifendibile, a Nairobi la quasi totalità delle prenotazioni di taxi viene fatta con un’app. Una frontiera piuttosto interessante, non crede?

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