Va’, operaio del pensiero

Il nuovo mondo digitale non può essere gestito da cervelli a vapore… sei tu la nuova rivoluzione industriale

COMPUTER COGNITIVI CHE PRETENDONO DAGLI OPERAI un potenziamento delle prestazioni intellettuali e un superamento delle barriere fra persone e oggetti.
Imprese gestite da macchine intelligenti che in piena autonomia sbrigano lavori complessi. Uomini che in piena solitudine perdono i loro (ex) lavori complessi.
Questa e tante altre cose è la gettonatissima industry 4.0. Talmente gettonata che all’ultimo World Economic Forum a Davos “La quarta rivoluzione industriale” la faceva da padrone, almeno in agenda come “main topic” da discutere. Discutere di cosa? Intanto delle implicazioni già previste, tra le quali la perdita di milioni e milioni di posti di lavoro da qui al 2020 e un ulteriore aumento delle disuguaglianze. E poi il fatto che questa rivoluzione a differenza delle altre (precedenti) è più veloce, esponenziale, pervasiva, insomma non lascia fuori nulla e nessuno. D’accordo: ma di quale rivoluzione stiamo parlando? Non so se ci avete fatto caso (se leggete abitualmente il Dirigibile sì), ma questa è la prima (presunta) rivoluzione industriale “ordinata” perentoriamente e burocraticamente dall’alto, ovvero per un atto affermativo del governo tedesco e delle relative associazioni industriali. Le precedenti (e vere) rivoluzioni industriali, la uno, la due e la tre, sono state nominate in modo sociologicamente ed economicamente corretto: a posteriori, dopo che la loro essenza e il loro impatto erano per tutti visibili. E allora? Allora bisogna fare un po’ di ordine per focalizzarsi sulla vera rivoluzione in corso. Perché parlare ancora per l’ennesima volta di rivoluzione industriale è fuorviante e ci porta lontano dal vero cambiamento in atto.

Vecchie fisse
…industriali. Un’intera economia e società è stata plasmata secondo le teorie e pratiche della produzione di massa e dei costi marginali. Ora, di fronte alla rivoluzione digitale e a quella dell’intelligenza artificiale, si risponde con un desiderio di continuità “industriale”, quasi a voler salvaguardare una Weltanschauung capitalistica durata per secoli. Grave errore, perché non possiamo più aspettarci di abbinare la parola rivoluzione a un termine (industria) ammuffito. Quello che ci attende in futuro non ha più niente a che fare con diligenza e routine – termini cardine dell’industria – la standardizzazione perde di significato. Chi vuole avere una fabbrica intelligente in grado di adattarsi rapidamente alle mutevoli esigenze deve pensare in modo diverso da quello che ha imparato nell’era della produzione di massa. Questo vale per tutti: personale, organizzazione, ricerca, sviluppo e il ruolo dei clienti e partner per l’innovazione. Di quale industria stiamo parlando allora? La nozione di industry 4.0 ci porta su una strada sbagliata. Se fossimo veramente preparati a quello che sta per accadere, allora dovremmo chiamare questa “cosa” 1.0 (un nuovo inizio) e non 4.0.


Nuovi inizi
Spaparanzato sul divano di casa, il giovane operaio digitale produce con la propria stampante 4D protesi adattive per gli ospedali di mezzo mondo. Allora che senso ha parlare di fabbrica se la fabbrica non esiste più? Parlare di fabbrica 4.0 è come parlare di fordismo 4.0 con le sue belle catene di montaggio ora intelligenti o artificiali. Non ha senso. O meglio: fabbrica non è più la parola adatta per raccontare la trasformazione in atto anche se assomiglia alla super tecnologica “fabbrica digitale” della Siemens ad Amberg (Germania). Abbiamo bisogno di abbandonare questo termine che vincola la nostra immaginazione e ci inchioda a processi e procedure obsolete. Non è un’esagerazione semantica. “Le parole” come diceva Nanni Moretti nel film Palombella Rossa “sono importanti”. Con Future Management Tools, il format di Cfmt sulle tendenze in atto, ci abbiamo provato creando un neologismo che si focalizza simbolicamente sulla vera rivoluzione: mindustry (mente + industria), un nuovo mindset per ripensare il futuro dell’impresa oltre le categorie primario, secondario e terziario. Sì, perché il nuovo mondo digitale non può essere gestito da cervelli a vapore.


Nuove produzioni
Efficienze: le macchine comunicano fra loro e ogni singola unità sa sempre cosa fare per fare prodotti a minori costi e maggiori personalizzazioni. Il futuro abbandono della produzione di massa e delle relative logiche industriali si vede bene, simbolicamente, non tanto nelle solite decantate stampanti 3D, fabbricazioni digitali, sensori, internet delle cose ecc. ma per esempio nella ricca e profittevole industria farmaceutica “di massa”: farmaci identici per tutti e per tanto tempo le aziende faranno trincea per difendere quel lucroso mondo. Non è però il mondo del futuro. La nuova medicina genetica, predittiva e personalizzata, ci proietta in un futuro dove ogni paziente ha la sua personale cura/farmaco che magari si autoproduce in casa su ricetta-algoritmo. E se vale per il settore farmacologico vale per tutti. Ovvero, la fabbricazione intelligente realizza prodotti sempre più intelligenti, per un uso singolarmente più intelligente.

Nuovi centri
Ovvero l’abbandono del centro. La fabbrica digitale, o additive manufacturing, renderà obsoleta l’idea delle grandi fabbriche centralizzate. Decentralizzare significa produrre localmente qualsiasi cosa, anche un’auto come nel caso di Local Motors, il primo veicolo stampato con la tecnologia tridimensionale. Il fabbing territoriale è una piccola rivoluzione silenziosa che farà molto rumore in futuro, stravolgendo anche le logiche di approvvigionamento e il ruolo dei fornitori. Per dire: già oggi i nuovi Airbus A350 contengono più di mille parti realizzate internamente con stampanti tridimensionali.

Nuovi servizi

Da fabbrica di produzione a fabbrica di servizi. La produzione è solo un di cui quasi marginale. La nuova smart factory produce soprattutto smart service. La digitalizzazione non trasforma solo produzione, prodotti e distribuzione ma anche i mercati concepiti ora come piattaforme digitali che fungono da intermediari fra chi vende e chi compra con standard “imposti come modello” dai vari Apple, Google, Amazon, Facebook o Ebay. Soprattutto quello che cambia è il valore, anche economico, del prodotto. Facendo l’esempio dell’automobile, il valore non è più il prodotto (hardware) ma le funzioni (software). L’auto è diventata di fatto un’app, un’applicazione che ruota attorno alle esigenze della mobilità. L’auto come uno smartphone e l’industria automobilistica come mobility service provider. Il compratore che configura i propri acquisti come le preferenze di un programma sul computer. E quindi: a dare il ritmo alle regole del business industriale saranno sempre più i software-player rispetto agli hardware-player. Questo vale anche per la futura casa intelligente (smart home) che verrà gestita tramite l’onnipresente nostra protesi cellulare e dunque di nuovo Google & Co.

Nuove menti

Dare ordini al computer o prendere ordini dal computer? Chi è la vera mente dell’impresa del futuro. La loro o la nostra? Ci stanno raccontando che l’intelligenza artificiale è lì pronta a sostituirci e noi ci crediamo ciecamente perché le macchine e i loro artefici sono bravi a simulare l’intelligenza di una persona e ci fanno intendere che non c’è differenza fra la loro (presunta) e la nostra (assunta). Il trucco funziona perché un buon 90% dell’umanità non ha cognizione alcuna di questo termine e si fa “sorprendere” dagli adepti della Singularity quando annunciano intelligenza artificiale più progredita e superiore a quella umana. Quindi vince la nostra testa? In teoria oggi ancora sì, ma forse domani ni. Nick Bostrom, filosofo, direttore del Future of Humanity Institute di Oxford e autore del recente saggio Superintelligence, reputa plausibile un futuro ordine mondiale governato da una incontrollabile intelligenza artificiale con conseguente rischio esistenziale per il genere umano. Comunque vada a finire resta però il fatto che noi (umani) dobbiamo progredire a prescindere dagli scenari dispotici in agguato. Dal body-building al brain-building, dall’enlarge your penis all’enlarge your brain. E non tanto per manovrare internet e computer con la sola forza del pensiero, come immaginano i profeti dell’era di “brainternet”.

Nuovi operai

In una fabbrica-laboratorio l’operaio laborioso è superfluo. È tempo di “industriarsi”. La fabbrica intelligente richiede personale intelligente. Sembra ovvio ma non lo è. Servono persone che fondono atomi e bit. Serve un operaio capace di dialogare con i sofisticati sistemi. Non abbiamo bisogno di ridicoli cyborg e/o di protesi tecnologiche ma di più pensiero, mente e conoscenze.
Operai del pensiero. Umberto Eco poteva essere il soggetto ideale. In mancanza di lui vanno bene anche operai specializzati in dati, operai informatici o digitali, operai ingegnosi e ingegneristici e sì, anche operai filosofi che dominano la complessità e imprevedibilità. Insomma, nuove figure che non dirigono macchinari, ma si fanno assistere da loro in una sorta di “tempi ultramoderni”, dove Chaplin non è più subordinato alla tecnologia ma fa fare alla tecnologia quello che ha in mente.

Nuovi sindacati

«In Germania sappiamo molto bene che nei prossimi anni e nel solo settore delle telecomunicazioni spariranno 15mila posti di lavoro» precisa Lothar Schröder, del consiglio d’amministrazione del sindacato Verdi, «serve una nuova visione del nostro ruolo». È così. Il sindacalista rivendicativo che difende e pretende il lavoro è morto. Il sindacalista esplorativo che difende e pretende la conoscenza è vivo (lo sarà). Potremmo anche chiamarlo il “sindacanalista”.
Il futuro sindacalista analitico rappresenta i futuri operai del pensiero. Non sbraita, non grida, non minaccia e non protesta, ma indaga, esamina, collabora e propone. Spesso nuove strade non prive di attriti per i “vecchi lavoratori”, e qui torna utile la parte “psicoanalitica” del nuovo sindacalista. Che deve curare (rivoluzionare) ma anche consolare (ammortizzare).

Nuovi welfare

La conoscenza genera automazione. Non è questo il male. Il male è l’assenza di un new deal per il welfare. Urgono nuove politiche economiche e sociali poiché la bella favola tecnologica “c’era una volta una rivoluzione che produceva tanta occupazione” è appunto solo una bella favola. L’economia della conoscenza non sostituisce tutti i vecchi lavori con dei nuovi. Anzi. Ai tempi d’oro Kodak aveva 150mila dipendenti, Instagram ne aveva 13 quando fu acquistata per un miliardo di dollari da Facebook e Whatsapp 50 quando passò di mano (sempre Facebook) per la bella cifra di 19 miliardi. Un mucchio di soldi e briciole di lavoro per pochi talentuosi fortunati. Non è il lavoro a diventare superfluo (anzi aumenta) ma la forza lavoro. Se Al posto tuo (titolo di un libro) lavorano le macchine, allora forse è giusto che si guadagni al posto loro, visto che sono loro a generare produttività e ricchezza sempre maggiori? È una strada. Se ieri il diktat politico-economico era “lavoro per tutti” domani sarà “dividendo per tutti”. Una sorta di reddito di azionariato tecnologico diffuso.

Nuovi manager

Futura macchina senza conducente (self-driven car) uguale a futura impresa senza conducente (self-driven business)? Il manager accorto già lo sa che il suo futuro concorrente umano non sarà. I futuri head hunter saranno anche tech hunter, ovvero simultaneamente cacciatori di teste “naturali e artificiali”? Plausibile in un’era in cui la tecnologia non serve più solo per agevolare le decisioni ma per prenderle direttamente, come già succede nelle varie applicazioni per predire eventi futuri. Dirigere a ritmo di algoritmo un’orchestra composta da macchine potrebbe diventare la norma per il nuovo leader che gestisce risorse artificiali e ne risolve i dilemmi etici.

Nuovi imprenditori

E ovviamente servono nuovi imprenditori, che grazie a uno stormo di cervelli riscrivono, nei fatti, il futuro della vera industria intelligente che fonde terziario con secondario e primario. Se devo citarne una ad esempio “esponenziale” allora è l’italiana Bio-on di Bologna. L’azienda che sta per rivoluzionare il mondo della plastica – ottenuta dalla fermentazione batterica di zuccheri – a livello globale ha una storia pazzesca alle spalle fatta di pura mente, ricerca, sperimentazione e visione del futuro fra cui i batteri (non i robot) che fungono da operai che producono il manufatto. Assolutamente da studiare.

Nuove mansioni

Se l’applicazione web jEeugene analizza automaticamente i contratti e altri documenti legali per rilevare gli errori difficili da individuare, a cosa servono, ancora, i giovani avvocati freschi di laurea? E lo stesso si potrebbe dire del giornalismo automatizzato dei vari automatedinsights.com e narrativescience.com che interpretano e trasformano dati e numeri complessi in una notizia o in un articolo divulgativo senza che un giornalista in carne e ossa sfiori una tastiera o del recutuiting automatizzato come www.viasto.com che propone il concept “assunti direttamente dal computer”. Chiaro che l’uomo deve inventarsi altro per giustificare la propria presenza nel mondo del lavoro.
Prendiamo il settore edile, per esempio. L’artigiano in loco nel settore abitativo ed edilizio sarà sempre necessario, ma i suoi compiti e i suoi processi lavorativi cambieranno. Egli verrà informato direttamente sulla necessità di una riparazione da dispositivi intelligenti, lavorerà mano nella mano con robot abili alla costruzione e collaborerà con gli specialisti It.

Nuovi robot

I diecimila robot magazzinieri di Amazon se la passano meglio di quelli in carne e ossa, anzi sono gli umani a ricevere un trattamento disumano, da macchine di terza categoria, così una nota denuncia di un giornalista della Bbc infiltrato in incognita a lavorare presso il magazzino a Swansea. Battaglia già persa anche perché nuovi robot operai tipo Baxter, androide sviluppato da Rethink Robots, si adattano all’ambiente e apprendono nuovi compiti in meno di trenta minuti. Certo, mansioni basiche, ma la strada è segnata soprattutto per la crescita cognitiva. Come sostengono molti neuroscienziati l’intelligenza ha bisogno di un corpo per evolversi nell’ambiente. Quindi robot e non stanziali computer. Per ora l’ambiziosa sfida di www.robocup.org è di battere entro il 2050 la squadra di calcio campione del mondo con una squadra di robot umanoidi. Vedremo.

Nuove fusioni

Simbiosi tra uomo e macchina. Sentire dentro di sé il computer o la rete. Non come allucinazione ma come possibilità. Tempo dieci anni anche il tablet a controllo mentale potrebbe diventare un gadget di uso (o abuso) comune.
Secondo Paolo Gallina, docente di robotica all’università di Trieste e autore del recente saggio L’anima delle macchine, siamo di fronte a una tossicodipendenza tecnologica. Se è vero che abbiamo bisogno di macchine e tecnologia come di amore e ossigeno la fusione risulterà fatalmente inevitabile. Per futurist come quelli dell’Institute For The Future niente di nuovo. Per loro l’abbraccio finale fra umano e macchina è vicino. Leggere la loro recente mappa Human plus machine (http://tinyurl.com/jyuafce) che sintetizza in modo agevole le principali estensioni dei nostri sensi grazie alla tecnologia.

Nuove collaborazioni

Economia collaborativa e dintorni. Se in realtà fatichiamo a collaborare fra simili figuriamoci fra disimili. La cosiddetta industry 4.0 introduce il suggestivo tema della collaborazione 4.0. Lavorare in team con bulloni e sensori intelligenti. Discutere di decisioni da prendere con siti cognitivi e robot adattivi.
Molti fanno spallucce e snobbano questo scenario perché percepito come troppo futuribile. Non è così. Le nuove macchine vengono già oggi programmate con meccanismi collaborativi per velocizzare e incrementare la produttività. Collaborare non con risorse umane ma artificiali sarà una delle sfide, non facili, a cui abituarsi e prepararsi.

Nuove cose

L’oggetto diventa soggetto. Capace se non proprio d’intendere e volere almeno di comunicare. Nei prossimi quattro anni la popolazione di internet of things supererà di gran lunga la popolazione umana. In base alla previsioni di Cisco nel 2020 ben 50 miliardi di dispositivi saranno connessi in rete. Questo cambierà radicalmente la nostra relazione con gli oggetti perché se ogni cosa è rintracciabile tramite un comune motore di ricerca il mondo materiale si anima ai nostri occhi. Tanto da copiare nostri comportamenti. Per esempio l’uso dei social network. Con il software dweet.io di Bug Lab ora pure gli oggetti e le macchino iniziano a “twittare”. Il trend? L’interazione con i vari dispostivi diventerà sempre più intuitiva e meno “interface”: parlare, gesticolare, sfiorare, percepire per dialogare con la tecnologia esattamente come facciamo con le altre persone: in modo diretto.

Nuovi rischi

Dopo l’automazione della forza arriva l’automazione del pensiero. Ma non vogliamo parlare del solito, ormai noto, rischio occupazionale (per gli umani).
I rischi sono tanti e vanno in ogni direzione. Dal terrore che l’intelligenza artificiale possa distruggere l’uomo (appello dell’astrofisico Hawking) ed essere potenzialmente più pericolosa delle armi nucleari (monito di Elon Musk, ceo Tesla Motors) alla quasi certezza che il controllo dei dati non fa rima con privacy, se non nei proclami, fino al timore che l’intera economia, sia in procinto di entrare nella sfera dell’indifendibilità soprattutto le nuove smart factory tutte basate su connessioni e protocolli Ip. Perché se tutto è internet tutto può essere craccato, piratato e sabotato, compresa una produzione automatizzata di bulloni o una centrale energetica. Poi c’è il vasto tema delle decisioni delegate alle macchine dove il dilemma etico (vedi auto senza conducente che in caso di incidente deve scegliere chi salvare al posto di chi) è quasi privo di soluzione.

Nuove università

Se tutto è così nuovo perché allora l’università è ancora così vecchiamente ancorata al fordismo (anche se 4.0) e pretende, come al solito, di qualificarci riempiendoci di nozioni e competenze? Il tema non è più essere qualificati per un lavoro, ma avere le qualità flessibili per i molti lavori e ruoli che saremmo costretti a cambiare almeno 40 volte nella nostra vita, in fabbrica o altrove. Quello che conta e serve è il linguaggio osservazionale, l’analisi critica, il pensiero visionario, insomma, l’arte di pensare. Transdisciplinarità, competenze cross-culturali, scalabilità cognitiva, quoziente d’intelligenza collettivo (o collaborativo) al posto di quello individuale e soprattutto una testa “responsive” mutevole, versatile e adattabile come i siti web. Siamo pronti per questo?

Nuovi incroci

In un contesto di tale complessità e ambiguità la collaborazione incrociata diventa inevitabile strategia di sopravvivenza. L’isolamento competitivo è oggi pratica suicida. Oggi si sopravvive solo con innovazioni che nascono dalla combinazione creativa di competenze provenienti da diversi settori. In una formula cross industry innovation: collaborare con aziende di altri settori in modo sistemico. Anche perché oggi ogni azienda, anche grande, viene aggredita quotidianamente da startup che si muovono su un terreno privo di settori di appartenenza.

Vecchia morale

Che mente la fabbrica intelligente. Pronta a prendere le più ardue decisioni. E se mentisse e ci prendesse per il naso? E se avesse ragione l’informatico tedesco Joseph Weizenbaum, che nel lontano 1976 affermò nel saggio Computer Power and Human Reason che «non è saggio far prendere decisioni importanti ai computer dotati di intelligenza poiché privi di compassione e saggezza»? Ciò, secondo lui, sarebbe conseguenza del fatto che le macchine non crescono in ambienti emotivamente stimolanti come una famiglia umana.

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