Il patto di non concorrenza è disciplinato all’art. 2125 c.c. che statuisce la nullità dello stesso se:
- il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo;
- in mancanza di pattuizione del corrispettivo;
- se l’accordo non risulta da atto scritto.
La durata del vincolo non può essere superiore a cinque anni con riferimento ai dirigenti e a tre anni per gli altri lavoratori subordinati.
Ciò premesso, va segnalato che nella prassi contrattuale risultano a volte inserite clausole che sanciscono la facoltà di recesso esercitabile in via unilaterale dal datore di lavoro, con liberazione dagli obblighi assunti in sede di stipula del patto.
In un primo momento la giurisprudenza di legittimità, limitandosi ad una mera applicazione dei generali principi civilistici di cui all’art. 1373 c.c., aveva optato per la piena validità di tali clausole (Cassazione n.1686/1978). A seguito di varie critiche emerse in dottrina e tra i giudici di merito – riconducibili alla tesi della sostanziale elusione del regime di tutela della parte debole fissato dall’art. 2125 c.c. – l’orientamento prevalente appare ormai decisamente contrario a ritenere valide tali statuizioni.
La giurisprudenza di legittimità (Cassazione n. 23723/2021), ha dichiarato nullo il recesso del datore di lavoro dal patto di non concorrenza anche se esercitato in costanza di rapporto. I giudici, in particolare, hanno affermato che tale circostanza non rileva, dato che i rispettivi obblighi si perfezionano al momento della sottoscrizione del patto – sacrificando per questa parte la libertà del lavoratore di pianificare il suo futuro lavorativo – e i loro effetti non possono essere posti unilateralmente nel nulla a posteriori.