Il patto di non concorrenza trova la sua disciplina all’art. 2125 del codice civile per quanto concerne il lavoro subordinato e all’art. 2596 per il lavoro autonomo e parasubordinato.
In particolare, l’articolo 2596 c.c. titolato “Limiti contrattuali della concorrenza”, stabilisce che il patto che limita la concorrenza:
- deve essere provato per iscritto;
- per essere valido deve essere circoscritto ad una determinata zona o ad una determinata attività;
- non può eccedere la durata di cinque anni;
- se la durata non è determinata o è stabilita per un periodo superiore a cinque anni, il patto è valido per la durata di un quinquennio.
La giurisprudenza di legittimità ha ribadito che è nullo il patto di non concorrenza diretto “non già a limitare l’iniziativa economica privata altrui, ma a precludere in assoluto ad una parte la possibilità di impiegare la propria capacità professionale nel settore economico di riferimento” (Cassazione n. 24159/2014).
Con riferimento al lavoro parasubordinato, la Cassazione ha statuito che l’obbligo di astenersi dalla concorrenza non è riconducibile all’art. 2125 c.c. – riferito al patto di non concorrenza per il lavoratore subordinato – ma rientra nella previsione di cui all’art. 2596 c.c. “permeando come elemento connaturale ogni rapporto di collaborazione economica” (Cassazione n. 7141/2013).
Rispetto al patto di non concorrenza disciplinato per i lavoratori subordinati, emerge l’assenza di una previsione circa il corrispettivo economico da corrispondere al lavoratore autonomo o parasubordinato in ragione dell’obbligo di non svolgere attività in concorrenza stabilito nell’accordo. La mancanza di tale determinazione nel lavoro subordinato è causa di nullità del patto.
Inoltre, la forma scritta nel patto di non concorrenza per i lavoratori autonomi/parasubordinati è richiesta al fine di provare quanto pattuito, mentre nel lavoro subordinato l’accordo è nullo se non risulta da atto scritto.