Brownout: crisi esistenziale sul lavoro


All’inizio di un nuovo anno è importante riflettere sui propri obiettivi professionali e di carriera, cercando di rispondere a domande cruciali: ci piace il nostro lavoro? ci procura soddisfazione oppure semplicemente lo “subiamo”? A questo proposito la psicologia sta studiando da tempo una sindrome strettamente legata agli ambienti di lavoro, la cosiddetta sindrome del “brownout” (letteralmente “calo di tensione”). Si tratta, secondo la definizione di Nadia Droz, specialista di burn-out a Losanna, di una sorta di rinuncia interna, di un sentimento di inutilità quando non, addirittura, di danno per ciò che si fa sul lavoro. 

L’antropologo americano David Graeber punta il dito contro l’invasione dei “bullshit jobs”: impieghi contraddistinti da una perdita di significato, in particolare nel mondo dei servizi (risorse umane, management, comunicazione, consulenza…). 

Molti libri approfondiscono il tema dell’incongruità del lavoro nel mondo moderno. Tra i titoli segnaliamo «Néantreprise. Dans votre bureau, personne ne vous entend crier» (Favre), in cui l’autore Marc Estat (pseudonimo) descrive il suo lavoro quotidiano all’interno di una multinazionale contraddistinto da presentazioni soporifere in PowerPoint, circondato da colleghi che parlano un linguaggio stereotipato infarcito di termini inglesi. Nel libro «Boulots de merde! Du cireur au trader, enquête sur l’utilité et la nuisance sociales des métiers» (La Découverte), Julien Brygo e Olivier Cyran puntano i riflettori sul lavoro dipendente, sulla tendenza a razionalizzare i compiti tipica del lean management, che si ispira al metodo Toyota.

Altri analisti denunciano il deprezzamento di tutti i lavori a forte valore sociale (insegnanti, lavori nell’ambito sanitario, per citare alcuni ambiti), a differenza di quei mestieri in grado di generare denaro. 

Molte imprese, inoltre, anziché aiutare a scoprire il significato del lavoro chiarendo gli obiettivi di ciascun dipendente, preferiscono offrire palliativi (weekend di team building) o soluzioni volte a garantire il benessere in azienda, osserva il sociologo Aurélien Fouillet, ma si tratta solo di “playing washing”, una copertura volta trasmettere l’idea di una dimensione intima dell’azienda per costringere a rispondere alle email fuori dagli orari di lavoro e sentirsi in dovere di dare qualcosa in più.

Cambiare strada può essere una soluzione, come racconta nel best-seller «Shop Class as Soulcraft – An inquiry into the value of work» (The Penguin Press) Matthew Crawford, che ha lasciato un incarico all’interno di un think thank di Washington per dedicarsi alla riparazione di motociclette. Sono molte le storie di chi, a un certo punto del proprio percorso professionale, decide di fare tutt’altro. Per cambiare in fondo non è mai troppo tardi e può essere opportuno se si perdono completamente interesse e passione in ciò che si fa tutti i giorni. 

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