Per adattarci a vivere bene in un mondo diventato improvvisamente più volatile, incerto, complesso e ambiguo occorre ‘apprendere ad apprendere’ continuamente, costruendo una nuova cultura della formazione e del lavoro, incentrata sulla flessibilità e generatrice di nuove pratiche organizzative. Una trasformazione radicale che coinvolge fortemente i manager. Ne parliamo con Franco Amicucci, formatore ed esperto di e-learning, fondatore di Skilla, società di consulenza specializzata nell’innovazione dell’apprendimento a distanza.
Dal suo punto di osservazione, quali sono le trasformazioni più significative che il lockdown sta avendo sul mondo della formazione, in particolare della formazione professionale, in Italia?
Il Coronavirus ha imposto un’accelerazione improvvisa e impressionante: abbiamo compiuto in pochi giorni un’evoluzione che ipotizzavamo sarebbe avvenuta in cinque o dieci anni. Milioni di persone si sono trovate a sperimentare per la prima volta modalità di studio e apprendimento che erano appannaggio di una minoranza, fino a poche settimane fa. Dalle scuole ai luoghi di lavoro, la formazione è passata dalle aule tradizionali alla teledidattica, la forma più elementare di formazione a distanza. E’ il primo passo, è una sperimentazione di massa che ci porterà verso l’evoluzione della didattica. Molti insegnanti e docenti hanno rotto il velo che impediva loro di usare semplici strumenti per operare a distanza e si sono accorti che la soglia di accesso ad alcune tecnologie è molto bassa. L’integrazione tra la didattica tradizionale e il digital learning sarà naturale. La formazione d’aula in ambito professionale non scomparirà ma sarà necessariamente diversa, più breve ed esperienziale.
Quali sono le conseguenze, positive e negative, di un cambiamento dei modi di apprendere e di lavorare arrivato in modo così forzato e improvviso anziché programmato?
La consapevolezza di poter utilizzare la tecnologia per abbattere le distanze, rendere più flessibile e personalizzato l’apprendimento ha innescato trasformazioni ormai irreversibili. Sappiamo però che il cambiamento, se non ben gestito, rischia di rallentare l’innovazione e per questo è importante guidare bene questi nuovi processi.
In ambito professionale potremmo usare la didattica a distanza per abbattere radicalmente i tempi e i costi della formazione continua, permettendo così un accesso generalizzato all’aggiornamento professionale. Il principale rischio in questa fase è quello della banalizzazione e della semplificazione: pensare che sia sufficiente registrare un video per fare didattica a distanza.
Quali competenze servono oggi, agli individui e alla civiltà umana nel suo insieme, per affrontare un domani che la pandemia ha rivelato essere più incerto e incontrollabile di quanto immaginavamo fino a poche settimane fa?
Il concetto di VUCA – Volatility, Uncertainty, Complexity and Ambiguity – fino a ieri era oggetto di studio nella letteratura manageriale e nei convegni e oggi, all’improvviso, ci siamo trovati tutti a vivere in un mondo che appare più volatile, incerto, complesso e ambiguo di quello che credevamo. Siamo nel pieno di un’accelerazione radicale, viviamo una singularity di cui fatichiamo a comprendere la portata paragonabile a quella descritta nelle rappresentazioni fantascientifiche.
Vivere in un “mondo nuovo” richiede di imparare un nuovo alfabeto, attivare e sperimentare nuove pratiche sociali, il lasciarsi alle spalle vecchi schemi e culture. Richiede quello che Alvin Tofler definisce la competenza del disapprendere, che comporta una duplice sfida.
La prima sfida è quella di focalizzarsi su alcune competenze chiave richieste dal nuovo contesto: resilienza, adattabilità, apprendere ad apprendere negli ecosistemi fisici e digitali in cui siamo immersi, il problem solving collaborativo, l’uso degli strumenti digitali, il pensiero critico, tutte competenze che organismi internazionali come l’Unesco e l’Ocse definivano, ieri, strategiche per il futuro.
La seconda sfida è quella di acquisire una nuova cultura dell’apprendimento che non potrà più essere basata sulla separazione del tempo di studio dal tempo di lavoro ma dovrà riposizionarsi nella logica dell’apprendimento permanente, quotidiano, strettamente legato al lavoro e alla vita, tramite una molteplicità di strumenti, canali, format dove al centro c’è la persona che fa dell’“apprendere ad apprendere” la competenza chiave della propria sopravvivenza al cambiamento e della propria realizzazione.
Cosa dobbiamo disimparare?
Già prima dell’emergenza il concetto di apprendimento stava cambiando ma non ne eravamo del tutto consapevoli. Stiamo velocemente acquisendo consapevolezza che l’apprendimento non è un processo lineare e cumulativo, misurato in anni di studio e ore di formazione ovvero un “Chrónos formativo” ma è un percorso basato su rotture e salti di paradigmi in cui saper disapprendere e creare dei vuoti è sempre più necessario per acquisire rapidamente nuove abilità, culture, modelli di riferimento che potremmo definire come un “Kairós dell’apprendimento”.
Dobbiamo imparare ad apprendere dalle esperienze più significative, da successi ed errori, dalla capacità di fare domande alla nostra rete di relazioni e alla grande biblioteca-ipertesto che è il web e poi di saper filtrare le risposte, le informazioni e le conoscenze, dargli valore e rimetterle in circolazione.
Nella lunga lista di cose da disapprendere o, per meglio dire, destrutturare, insieme alle vecchie culture burocratiche e ai vecchi modelli organizzativi, è importante inserire tutto quello che rientra nello stile della rigidità cognitiva. Una rigidità che è un tratto anche psicologico di una generazione che ha fatto di modelli e schemi culturali e stili di leadership un mantra. Dobbiamo invece aprire allo schema opposto, quello della flessibilità cognitiva, che permette un rapido adattamento di persone e organizzazioni a nuovi contesti, sfide, opportunità.
Come affrontare il sovraccarico cognitivo a cui siamo sottoposti?
Il lavoro intellettuale in contesti di relazione digitale rischia di rompere ogni minimo confine fra vita privata e vita di lavoro, con conseguenze importanti sul carico cognitivo e sullo stress. E’ urgente creare una nuova cultura del lavoro e dello studio affinché con il valore della flessibilità si affermi una nuova capacità di gestire la vita personale nei tempi e negli spazi. Si accentueranno e diventeranno di massa nelle organizzazioni pratiche finora marginali, come la mindfulness. Si dovranno reinventare gli orari di lavoro, con una progettazione nuova delle pause, che permetta ad esempio l’utilizzo della palestra interna non solo a fine giornata.
Come accade nelle diete, di fronte all’enorme buffet che abbiamo di fronte dobbiamo imparare ad eliminare qualcosa. Il sovraccarico cognitivo richiede la “dietetica delle informazioni” cioè la capacità di focalizzarsi sulle informazioni chiave, di allenare l’intelligenza sintetica che Howard Gardner definisce una delle cinque chiavi per il futuro.
L’improvviso e massivo ricorso allo smartworking e all’e-learning ha evidenziato che la carenza di una specifica “cultura della cittadinanza digitale” in Italia è un’emergenza sociale. Quali sono le priorità per colmare il divario?
L’Italia è purtroppo agli ultimi posti in Europa nell’ambito della cultura e delle competenze digitali. Siamo il paese più anziano d’Europa e questo non facilita la cultura digitale. Abbiamo una pubblica amministrazione diffidente verso l’introduzione pervasiva del digitale. La dirigenza del Paese, a tutti i livelli, per fattori anagrafici e culturali è carente sul piano del mindset e delle competenze digitali mentre le giovani generazioni, mediamente più alfabetizzate digitalmente, non hanno per ora ruoli di potere significativo. Viviamo un grande paradosso: chi ha potere non possiede le competenze fondamentali per il futuro, chi possiede le competenze non ha il potere spesso per esercitarla. Per invertire la rotta dovremo impegnarci per arrivare agli standard del DigComp, il quadro di riferimento per le competenze digitali dei cittadini europei.
Quale formazione serve per aiutarci a ragionare e a lavorare meglio nel mondo digitale?
Mi piace ricordare che, nel nostro Paese, le competenze digitali sono come la lingua inglese: qualche parola la conoscono tutti ma pochi lo parlano bene. La formazione sul digitale deve essere impostata come un vero e proprio apprendimento di una lingua straniera perché il digitale, per buona parte dei cittadini e dei lavoratori, è come una lingua straniera!
Servirebbe probabilmente un piano nazionale straordinario ma, intanto, ogni organizzazione può iniziare a metterlo al centro delle proprie attività formative. L’esperienza di Skilla parte da un programma organico che inizia con l’assessment delle competenze digitali e si sviluppa in progetti di reverse mentoring, dove i lavoratori più giovani si rapportano con quelli più anziani, compresi quadri e dirigenti, per trasmettere loro competenze digitali, tramite percorsi di microlearning con allenamenti quotidiani via app, momenti di full immersion, sfide, gamification e altre iniziative personalizzate sulle diverse culture aziendali.
A proposito di mindset digitale e all’apprendimento continuo: come diffonderlo nel contesto manageriale e imprenditoriale italiano, alla luce dei cambiamenti in corso?
L’esperienza di queste settimane rappresenta una grande full immersion formativa sul digitale per il management italiano, vissuta in contemporanea e massivamente. Ora inizia il momento del debriefing. Cosa abbiamo appreso? Come sarà l’organizzazione del futuro? Dove investire affinché persone e organizzazioni siano più agili, smart e performanti grazie alle tecnologie?
Le nuove forme di lavoro che si stanno profilando, insieme all’accelerazione della digitalizzazione in tutti i processi e alla robotizzazione di moltissime attività manifatturiere, richiede una nuova visione manageriale incentrata sul valore della formazione, che non potrà essere più una funzione marginale come lo è in troppe realtà ma un fattore strategico. Dobbiamo sempre più configurare le organizzazioni come veri e propri ecosistemi di apprendimento continuo, non solo all’interno per le persone che vi lavorano con anche all’esterno, in connessione con il proprio ambiente di relazioni.
Cosa possono fare i manager per orientare le attività imprenditoriali nella transizione verso modelli più sostenibili di produzione, distribuzione e consumo, cogliendo l’opportunità di questa crisi?
Una delle grandi sfide manageriali è quella di orientare il business verso l’etica e la sostenibilità, non per seguire un imperativo morale ma come precondizione per garantire l’esistenza stessa delle aziende nel futuro.
I manager potranno esercitare un ruolo sempre più centrale nella società se sapranno esercitare due dimensioni della leadership spesso trascurate: la “lateral leadership”, cioè la capacità di creare reti virtuose, di intelligenza connettiva e di intelligenza collettiva con i propri colleghi e soprattutto, la “leading up”, cioè saper influenzare e guidare, in determinate fasi, le proprietà aziendali e i consigli di amministrazione, che sono spesso azionisti proprietari “non competenti” sul business specifico.
Quali passi concreti potrebbe fare un’associazione come Manageritalia per realizzare il suo recente auspicio affinché i corpi intermedi collaborino per indirizzare, guidare e monitorare la diffusione dello smartworking in Italia?
I pilastri su cui fondare lo smart working sono tre: il primo poggia sulla cultura del lavoro, partendo da quella manageriale; il secondo sulla diffusione di competenze specifiche per operare con agilità ed efficacia a distanza; il terzo sulle dotazioni di infrastrutture digitali, dispositivi, connessioni e applicazioni. Come parte sociale Manageritalia può diffondere la consapevolezza tra i suoi interlocutori sull’urgenza di investire, a ogni livello, per consolidare questi tre pilastri. Nello specifico della rappresentanza manageriale può operare sul piano sindacale nella contrattazione collettiva, per investire sulla formazione e l’informazione continua e offrire servizi specifici per il manager.