Superbonus o superlavoratori?

In occasione del Primo Maggio, una riflessione sul lavoro. Per crescere non servono bonus o superbonus, ma buone aziende, buoni manager, buone competenze e buoni lavori
Primo Maggio

Il problema del lavoro in Italia non ha ricette semplici e non si risolve con gli slogan. Il primo scoglio da superare rimane il salario, che da decenni da noi è fermo (+1% dal 1991), mentre cresce in tutti gli altri 37 paesi Ocse (32,5%).

Mancano lavori di qualità

In particolare, nel confronto la differenza la fanno i salari alti, perché mancano i lavori di qualità. Questo è un problema molto poco dibattuto in Italia e invece davvero molto rilevante: se continuassimo a non pagare adeguatamente i lavori di talento e della conoscenza al pari dei paesi concorrenti, non avremmo mai una paragonabile crescita dei salari e continueremmo a condizionare negativamente la competitività delle nostre imprese e la crescita del Paese.

È ovviamente altrettanto urgente e opportuno trovare soluzioni ai cosiddetti lavoratori poveri e alle tante criticità del lavoro nostrano (l’esistenza di contratti collettivi inadeguati e pirata, l’eccessiva burocrazia, il lavoro sotto inquadrato, il lavoro nero, quello non protetto nei subappalti e tanto altro), ma occorre cominciare a ragionare anche sul fatto che l’Italia rimane indietro nel confronto internazionale, non perché i salari dei lavoratori a tempo pieno sono troppo bassi (i dati ci confermano che questi sono praticamente allineati con gli altri contesti comparabili), ma perché mancano i salari alti e non si investe nei lavori di qualità. Anche perché solo una crescita dei salari e dei business di qualità determina una crescita generalizzata di produttività, Pil, retribuzioni e ricchezza da redistribuire. Senza dimenticare il problema ancora più accentuato tra le nostre aziende delle differenze di genere. Non possiamo sottacere rispetto alle differenze retributive tra colleghi di diverso sesso, oltre a quanto poco stiamo sfruttando la leva femminile per la crescita economica.

Mancano le competenze

Collegato al problema del salario c’è poi quello delle competenze. Sempre più scarse e ricercate dalle imprese italiane, tanto che i tempi di ricerca ormai stanno creando crescenti costi sociali. Si stima che entro il 2027 il nostro mercato del lavoro avrà bisogno di circa circa 3,8 milioni di lavoratori, il 72% dei quali dovranno sostituire occupati in uscita. Per il solo 2022 Unioncamere ha stimato una perdita di valore aggiunto, causata dal mismatch tra domanda e offerta di lavoro, pari a circa 38 miliardi di euro. Confrontando domanda e offerta, si stima che nei prossimi 5 anni tali costi potrebbero crescere ulteriormente. Molti di questi costi saranno determinati anche dalla mancanza di figure manageriali, capaci di trainare le imprese sul percorso green, verso l’intelligenza artificiale e di far fronte quindi ai molteplici cambiamenti in atto.

Per porre rimedio a queste lacune, dovremmo intervenire con modalità innovative sul mercato del lavoro per favorire l’incontro della domanda con l’offerta, pensando a tutto, anche a risolvere i flussi migratori dei lavoratori necessari e a potenziare tutte le misure volte a ottenere una formazione qualificata e allineata alle caratteristiche mutevoli del mondo del lavoro. Ciò impone un rafforzamento della relazione strutturale fra contesti formativi e attività produttive, soprattutto copiosi investimenti, utilizzando tutte le risorse pubbliche e private. Senza dispersioni su proposte che sembrano essere caratterizzate più da necessità elettorali di ritorno del consenso immediato che dalla ricerca dell’efficacia a lungo termine.

I bonus non sono buoni

Perché i bonus, anche se super, non aiutano, come si è visto in questi anni, ancor più se sono discontinui ed estemporanei, a volte imprevisti. Basta leggere i dati che evidenziano una crescita dell’occupazione, ma non una corrispondente del Pil. Questo significa che gli aiuti erogati, soprattutto a giovani e donne, non hanno prodotto lavori di qualità ma lavoretti mal pagati che non creano ulteriori competenze ma generano lavoratori fragili e difficili da rioccupare se espulsi dalle imprese in crisi. Quindi con un ulteriore carico di ingenti costi sociali.

Poco rilevanti sono anche le ultime misure del Governo per sostenere i salari sotto una determinata soglia: non potendo agire sull’Irpef pagato in misura inconsistente dai redditi bassi, per sostenere il potere d’acquisto, sceso per l’impennata dell’inflazione, si continua ad agire sulla contribuzione Inps. Decontribuzioni che, va ricordato e rimarcato, sono, in definitiva, un prestito che si chiede ai futuri contribuenti. La misura infatti mantiene per questi lavoratori la promessa di un finanziamento del sistema previdenziale che generi prestazioni adeguate a contributi figurativi e prevede pertanto che qualcuno debba prima o poi pagare sotto forma di ulteriori tasse. Necessariamente anche quest’intervento ricadrà su quel 13% di contribuenti con redditi dai 35mila euro lordi in su che da soli pagano il 63% dell’Irpef. È quindi opportuno, anche per sostenere la fonte contributiva, che si allarghi il numero di questi contribuenti sostenitori del welfare state italiano, aumentando le opportunità di maggiori redditi.

Serve lavoro buono e di qualità

Intanto dobbiamo fare i conti con le richieste della futura forza lavoro, costituita dalle nuove generazioni di ragazze e ragazzi che, in particolare tra i più talentuosi, pretendono un lavoro che abbia un senso e che vada ben oltre al salario. Si torna, infatti, a parlare e a chiedere Etica e appartenenza, luoghi di lavoro belli e tempo da dedicare a sé, sicurezza personale e familiare, per arrivare alle caratteristiche di vere e proprie comunità virtuose. Richieste che, per le imprese e i sindacati, è opportuno e anche doveroso soddisfare, altrimenti questi lavoratori sceglieranno nel mondo l’azienda che li soddisferà. E noi abbiamo assoluto bisogno di business e lavori ad elevata qualità e valore aggiunto, soprattutto non possiamo continuare a regalare alle imprese mondiali concorrenti i nostri migliori cervelli, costati poi ingenti risorse pubbliche.

Su questo fronte ci sono ampi margini di miglioramento, iniziando ad agire sulla più innovativa contrattazione, nazionale ma anche aziendale, utilizzando non solo le moderne formule organizzative (smart working, lavoro in piattaforma, lavoro condiviso, part time a fine carriera e tanto oltre), ma anche sistemi premiali recenti, come il welfare aziendale. Un modello, in particolare quest’ultimo, che può significativamente contribuire a rafforzare il welfare pubblico e per questo deve essere esteso a tutti i lavoratori, non solo quelli privati e subordinati, oltre ad essere ancor più incentivato da un’opportuna legislazione.

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