Il welfare aziendale (WA) in Italia può vantare una storia almeno centenaria. È stato riscoperto all’inizio del terzo millennio e oggi, oltre ad essere uno dei temi principali delle trattative sindacali, è utilizzato dalle imprese come “leva” di people management grazie alle performance che contribuisce a generare. Piace anche ai lavoratori perché sostiene il loro reddito grazie a un effetto “netto” rispetto alla corresponsione cash di equivalenti importi e perché è finalizzato all’acquisto di beni e servizi utili anche per i propri familiari. I suoi pilastri sono i programmi di previdenza complementare e di assistenza sanitaria integrativa, sempre più necessari per garantirsi un futuro meno incerto e complicato (e ne abbiamo tutti bisogno). Durante la pandemia il WA si è ulteriormente rafforzato grazie alla riscoperta delle sue finalità più meritorie – “sociali” e di people care – che poi sono quelle che ne giustificano le favorevoli discipline fiscali e lavoristiche sulle quali si basa.
Lo sviluppo del WA è sempre associato a un quadro normativo e fiscale che ne incentiva le prassi. Il riferimento va innanzitutto al Tuir (dpr 917/1986, in particolare l’art. 51, commi 2, 3 e 4) che, a partire dalla legge 208/2015 (legge di stabilità per il 2016) e poi tramite successivi interventi, ha esteso la gamma degli interventi possibili includendovi nuovi servizi di rilievo sociale e, come tali, meritevoli del “favor” fiscale che li accompagna. A questo impianto si sono poi associate alcune importanti risoluzioni dell’Agenzia delle entrate, che hanno sempre più precisato il quadro applicativo favorendo anch’esse la diffusione del WA e/o delle prassi di “welfarizzazione” del premio di risultato.
Questa prima cornice normativa riguarda una parte importante, ma non esaustiva, dei possibili interventi di WA, un cui ulteriore terreno di sviluppo è quello di natura organizzativa. Molto del benessere in azienda passa, infatti, dalla flessibilizzazione degli orari di lavoro, dalla concessione di congedi e permessi retribuiti aggiuntivi rispetto alle previsioni di legge o di ccnl, dall’attivazione di policy e servizi interni capaci di sostenere politiche di work-life balance rivolte, in particolare, ai neogenitori o a quei lavoratori che devono fronteggiare la complessità di altri carichi di cura (come quelli che derivano dall’assistenza di un familiare anziano che, spesso, è anche non autosufficiente). Si tratta, ovviamente, di temi disciplinati da apposite leggi, ma che trovano nella contrattazione di secondo livello e nei piani di WA la sede per una loro ulteriore e ampliata affermazione e per il loro ridisegno sulla base delle condizioni “sociali” che ogni comunità aziendale rappresenta.
Sulla base di questo quadro di riferimento, le imprese possono accedere al WA attraverso tre diversi canali istitutivi, tra loro coesistenti: la contrattazione collettiva (nazionale e/o aziendale o territoriale), l’iniziativa unilaterale volontaria (meno conveniente fiscalmente) o un apposito regolamento aziendale; quest’ultimo, pur essendo un atto unilaterale, è in grado – rispettando le condizioni che gli attribuiscono valenza negoziale – di consentire l’accesso al trattamento di favore previsto per il WA di origine contrattuale.
Tra flexible benefit e premi di risultato
Da queste fonti istitutive possono derivare due opzioni tipologiche: i piani di WA “chiusi” e quelli “flexible”. I primi si caratterizzano per una selezione dei possibili servizi cui il piano darà accesso: impostazione che consente di procedere nel tempo a successivi upgrade del programma, arricchendolo con un ampliamento del paniere dei servizi disponibili. La seconda opzione consente invece ai lavoratori di comporre liberamente il paniere dei benefit che riterranno più utili per sé e per la propria famiglia.
Quest’ultima modalità è quella più diffusa, anche perché più snella e meno impegnativa sotto il profilo progettuale. È utile però precisare che un reale piano di WA (chiuso o flexible che sia) è generalmente il frutto di un’attenta analisi dei bisogni dei beneficiari quale presupposto per l’identificazione delle più corrette risposte. Si traduce in un set di tutele (non solo premi) sulle quali i lavoratori potranno fare affidamento nel medio-lungo termine (a prescindere dagli andamenti del business dell’impresa, ma semmai in stretto collegamento con l’andamento del welfare life cycle espresso dalle esigenze della vita di ciascun lavoratore).
Il WA “di produttività” invece, proprio per la sua intrinseca aleatorietà (frutto della sua derivazione dal conseguimento, sempre incerto, degli obiettivi aziendali), in concreto esprime una diversa modalità di corresponsione della parte variabile della retribuzione. Per questo non è la strada più sicura per costruire sostegni sui quali i dipendenti possano fare affidamento con quella costanza temporale che consente reali pianificazioni dell’allocazione delle risorse disponibili e decisioni più consapevoli sulle diverse opzioni offerte dal piano di WA stesso.
Il 2020, vista la situazione nella quale si sono trovate moltissime imprese in conseguenza degli effetti della pandemia, lo ha mostrato chiaramente: i target fissati nei budget costruiti nell’anno precedente, in molti casi non sono stati raggiunti e la quota variabile che poteva essere convertita in WA non è stata resa disponibile. Nelle realtà, dove la convertibilità del premio di risultato era l’unica fonte dalla quale derivare l’accesso ai servizi di WA, ha quindi trovato applicazione il principio “No target? No welfare!” che, proprio nel difficile e complicato contesto della fase più dura della pandemia, non ha certo rappresentato uno scenario ideale. È quindi evidente che meccanismi di sostegno dei lavoratori esposti al rischio di un’interruzione non siano la soluzione migliore per rafforzare il “patto” sul quale devono fondarsi le relazioni di lavoro nel quadro della loro trasformazione indotta dall’evoluzione tecnologica e organizzativa. Ne consegue che la soluzione più robusta sul piano degli effetti generabili con il WA (intesi anche come “ritorno” sul corrispondente investimento) è quella che prevede che una quota di WA sia sempre presente on top rispetto alla retribuzione e che la quota aleatoria, collegata agli obiettivi aziendali, sia semmai solo aggiuntiva.
Un nuovo mercato e il suo protagonista: il provider
Sul piano operativo, i programmi di WA comportano l’esecuzione di numerose attività preliminari e contestuali alla fruizione dei servizi. Tra queste ci sono l’attivazione di una rete di partner erogatori dei singoli servizi e, inoltre, la gestione e rendicontazione delle numerose transazioni economiche derivanti dalla fruizione delle prestazioni, cui è possibile accedere anche tramite l’emissione di appositi welfare voucher (usualmente digitali ed emessi dalle piattaforme web dedicate alla complessiva gestione del piano di WA). Le transazioni, poi, oltre che gestite contrattualmente, devono essere anche esattamente qualificate ai fini del loro corretto trattamento fiscale per evitare riprese da parte dell’Erario e dell’Inps.
In funzione del valore del “conto welfare” individuale (ossia l’ammontare attribuito dall’impresa a ciascun lavoratore a titolo di WA e “caricato” in piattaforma come credito) ciascun beneficiario potrà realizzare una pluralità di eventi di spesa; è chiaro che la complessità gestionale che può derivarne, anche in aziende di poche decine di lavoratori, suggerisce l’outsourcing delle attività operative e amministrative rivolgendosi a società specializzate: i provider. Lo sviluppo del WA in Italia deve certamente qualcosa a queste realtà e anzi, proprio nell’impetuosa crescita del numero dei provider – costantemente prodottasi negli ultimi dieci anni e arrivati a essere oltre un centinaio – possiamo rintracciare una prova della diffusione delle prassi di WA nel nostro Paese.
Ovviamente nulla impedisce a un’azienda di gestire “in casa” il suo piano di WA, ma i provider più strutturati, oltre a offrire portali dedicati alla gestione online della fruizione e/o della rendicontazione dei servizi, intervengono spesso anche nelle fasi di progettazione attraverso attività di consulenza e analisi socio-demografica della platea dei beneficiari, rivelandosi utili alla corretta definizione del programma di WA e, soprattutto, alla sua costante animazione nel tempo cui è associabile buona parte dell’efficacia degli interventi e quindi il successo stesso delle policy di welfare adottate dall’impresa datrice di lavoro.
Manageritalia, con l’accordo di rinnovo del ccnl del 16 giugno scorso, prevede l’integrazione con le piattaforme più diffuse sul mercato per permettere ai dirigenti di gestire online e in autonomia il proprio “conto welfare” assegnato dall’azienda. Così, oltre ai servizi previsti dai fondi contrattuali (Fondo Mario Negri, Fasdac, Associazione Antonio Pastore e Cfmt), sarà possibile accedere anche a ulteriori “pacchetti” di servizi (flexible benefit) che completano l’insieme delle iniziative disponibili per il dirigente e i suoi familiari.
Il welfare aziendale come investimento
Il WA previsto on top sulle retribuzioni (non quindi il WA che deriva dalla conversione dei premi di risultato che, in definitiva, “si paga” il lavoratore stesso con la quota variabile della sua retribuzione) deve poter essere capace di generare un “ritorno” rispetto alle risorse impiegate, e dunque dimostrarsi un investimento e non un puro costo. Per fare questo dev’essere progettato come strumento di una più ampia strategia di people management in evidente coerenza con la business strategy complessiva dell’impresa. Se ben strutturato, il WA può sostenere politiche retributive in grado di generare saving rilevanti (rispetto a incrementi salariali cash di valore corrispondente) sia per il lavoratore sia per l’impresa. L’importo riconosciuto sotto forma di WA, non costituendo reddito da lavoro dipendente, non è soggetto a tassazione né a contribuzione previdenziale e, lato azienda, neppure entra nel calcolo di altre voci di costo associate a quello del lavoro. Pertanto, 1.000 euro in WA sono 1.000 euro spendibili per il lavoratore (nei limiti della normativa fiscale) e sono 1.000 euro ben investiti per l’impresa, interamente deducibili ai fini Ires (se la fonte istitutiva è quella contrattuale o regolamentare aziendale; vedi grafico nella pagina a fianco).
Se la relazione di lavoro non è più solo uno scambio economico, ma può essere la premessa per la produzione di “eccedenze” reciproche (oltre il contratto e nella logica del “patto”) e se la sua funzione è quella di sostenere i nuovi schemi organizzativi che presuppongono una rinnovata considerazione delle soggettività che operano in azienda, allora i piani di WA possono essere considerati come un investimento organizzativo strategico di pari importanza rispetto ai restanti investimenti che, sul piano dell’innovazione tecnologica e produttiva, ogni azienda che intenda crescere pianifica e realizza.
Va da sé che il WA, inteso come investimento, debba essere misurato quanto ai suoi “ritorni” in termini di valore prodotto. In questa misurazione verranno certamente contabilizzati i saving fiscali e contributivi che la normativa consente di ottenere, ma andranno misurati anche gli effetti, diretti e indiretti, sulla qualità del lavoro e della vita – dentro e fuori dall’impresa – che il WA avrà contribuito a generare (è il grande tema della misurazione degli impatti anche sociali di queste policy).
La misurazione del “ritorno” sull’investimento in WA è una questione aperta: non è sempre agevole identificare indicatori idonei a questo calcolo e, ancor meno, è possibile generalizzare una “formula” valida in ogni circostanza, perché ogni settore e ogni azienda hanno specificità che impongono strutture di calcolo ad hoc. Tuttavia, sono state individuate alcune metodologie capaci di misurare l’apporto che il WA è in grado di offrire alla generazione di valore per l’azienda. In particolare (ed è quanto emerge dai lavori condotti alcuni anni fa dall’Università Milano-Bicocca con il laboratorio Welfare benefit return), mettendo sotto osservazione alcuni Kpi (su aspetti tangibili e intangibili dell’organizzazione aziendale), è stato possibile riscontrare che elementi come produttività, qualità e assenteismo possono ricevere una “spinta” anche fino al +10%, mentre asset intangibili come clima, engagement e brand reputation risultano positivamente impattati anche fino al +25%.