22 novembre – Oltre il marketing tradizionale

Spunti e riflessioni su cosa sta cambiando nel marketing. Un punto di partenza per discutere dei mutamenti in atto. Ne parliamo con Alfonso Emanuele de Léon, associato a Manageritalia Milano che vive e lavora da tre anni a Hong Kong, autore del libro fresco di stampa Beyond marketing. Il 22 novembre a Milano un evento dedicato a questi temi

Nel suo libro lei sostiene che il marketing classico non funziona più. Cosa c’è al di là del marketing tradizionale oggi?
Per spiegarlo bisogna prima capire l’evoluzione degli stili di consumo: nei paesi economicamente più avanzati una fascia rilevante dei consumatori si è spostata su uno stile di consumo più esperienziale. E per soddisfare queste esigenze del consumatore la brand equity si deve dotare di elementi aggiuntivi che non appartengono del tutto al marketing ma risiedono in altre funzioni aziendali.

Dice anche che i consumatori a livello globale sono tutti uguali. Perché?
È un po’ una provocazione ma analizzando i dati l’insight è abbastanza sorprendente. Ordinando ad esempio i paesi asiatici per reddito pro capite crescente e incrociando per lo stile di consumo ne esce un percorso del consumatore che passa attraverso quattro stadi: da uno stile di consumo essenziale, poi show-off, poi razionale divergente, poi esperienziale. È come se tutti i paesi o le diverse fasce di consumatori all’interno dei paesi, anche il nostro, percorressero la stessa curva con lo stesso punto di arrivo: non necessariamente possedere più cose, ma consumarle meglio, passando a stili di consumo più esperienziali.

Cosa intende quando afferma che dobbiamo guardare all’Asia per capire la rivoluzione che avverrà presto anche da noi?
Ci sono due fattori fondamentali che accelerano il cambiamento in Asia. Il primo è la demografia. In Malesia, per esempio, il 50% della popolazione ha meno di 25 anni, l’adozione di nuove tecnologie e stili di consumo è più veloce che da noi. Il secondo è il retail: in Asia esistono meno barriere storiche e architettoniche allo sviluppo di nuovi concetti retail. In questi paesi ogni anno si creano milioni di metri quadrati di spazi per il commercio a disposizione dei brand per sperimentare nuovi format. Da questo punto di vista l’Asia è un po’ il banco di prova più estremo delle tendenze che stanno per arrivare in Occidente. 

Quali cambiamenti fondamentali stanno impattando negli ultimi anni sui consumatori e sul marketing?
Da un lato c’è un’accelerazione fortissima nel tempo di adozione di nuove tecnologie: ci sono voluti 70-80 anni affinché il 90% della popolazione americana adottasse il telefono, l’automobile e la lavatrice, poi 25 anni per la radio e il frigorifero, 20 per la televisione a colori e il pc, meno di 10 per i social media e gli smartphone. In secondo luogo non dimentichiamo che anche la globalizzazione avvenuta negli ultimi vent’anni ha portato concorrenza istantanea globale per ciascuno dei nostri brand. Ma il più grande e sottovalutato fattore di cambiamento risiede nella combinazione tra smartphone e social media che porta con sé un cambiamento radicale dei modelli di influenza del consumatore per l’acquisto di un brand e cambia radicalmente il nostro lavoro di marketer.

Le 4 p non bastano più per il consumatore più evoluto. Servono 4 nuovi punti cardine che oggi non sono sotto il controllo del marketing?
È proprio questa l’idea del Beyond marketing. I mutamenti in atto portano più rapidamente i brand di fronte a un bivio: rilanciare sul marketing esperienziale oppure finire per competere sul prezzo e impoverire il brand. Ritengo che per passare e vincere nel quarto stile di consumo, quello esperienziale, siano necessari almeno quattro nuovi pilastri del marketing di ogni brand: in store experience, storytelling, sviluppo di contenuti digitali e sostenibilità. La maggior parte di questi elementi non risiedono nel marketing tradizionale, quindi bisogna andare oltre: beyond marketing.

Il punto vendita non muore, ma si integra con l’online e diventa il driver di un’esperienza memorabile con il brand?
È un errore pensare che l’e-commerce finirà per soppiantare il retail. Anzi, la store experience è diventata un elemento fondamentale del brand. Il consumatore è alla ricerca di un’esperienza in store, di una connessione personale con la marca e chi la rappresenta. È ironico perché è come se l’avvento del commercio online avesse finalmente liberato il retail dalla pura funzione logistica di fornire dei beni di consumo e avesse ridefinito il suo vero ruolo, quello di fornire un contatto personale e un’esperienza. Nel libro c’è il caso di una catena di cartolerie australiana molto popolare in Asia, Kikki.ki, che tiene seminari gratuiti su come organizzarsi la vita per essere felici, o come essere più consapevoli della propria vita, come realizzare i propri obiettivi ecc. D’improvviso un negozio di agendine di carta è diventato un potente mezzo per trasformare la vita dei consumatori ed è al centro di tutta l’esperienza in negozio.

Uno di questi cardini è lo storytelling, ma non è fin troppo citato, abusato e male utilizzato?
Direi sottovalutato e sacrificato. Un brand è come una pietra. Ha tanti angoli e asperità. E sono proprio queste che rendono il brand bello e unico. In passato tanti brand del mass market hanno cercato di lisciare e levigare queste asperità, allargando il più possibile il target di riferimento e rendendo il brand adatto per tutti ma, alla fine, per nessuno. Il nostro compito è riscoprire i bellissimi spigoli del nostro brand, valorizzarli, anzi, renderli ancora più manifesti. E allora sì che torna ad avere sapore e il nostro consumatore esce dal torpore quotidiano e per un istante si entusiasma per i valori e contenuti che gli proponiamo. Sono d’accordo invece sul fatto che lo storytelling sia male utilizzato. Non è fine a se stesso e non deve essere fatto a tutti i costi sulla totalità degli elementi che compongono un brand. L’obiettivo non è raccontare tutte le storie della marca, ma una storia che dia credibilità e sostegno alla unique selling proposition della marca.

Il digitale è il terzo pilastro, abbastanza scontato. Ma come e quale digitale?
La combinazione tra smartphone e social media è la rivoluzione più radicale e straordinaria dell’ultimo ventennio. Cambia il ruolo del marketing, con forti ripercussioni nei rapporti tra brand e consumatori perché sposta il modello di influenza dell’acquisto dai contenuti generati dal brand a quelli generati da persone esterne al brand. Questo penso che l’abbiamo capito tutti. L’insidia sta proprio nella parola “digitale”, che descrive il mezzo e non il contenuto. Il punto non è che è cambiato il mezzo di comunicazione, ma soprattutto il lavoro di marketer: da produttore di contenuti all’interno a stimolatore di contenuti esterni da parte di blogger e influencer. Un cambio davvero epocale.

Il digitale cambia alla velocità della luce. Questo potrebbe cambiare le carte in tavola a breve?
In Cina esistono tre mega-gruppi, Alibaba, Tencent e Baidu, che offrono al consumatore piattaforme e servizi digitali inimmaginabili e quindi per questo conoscono tutto, ma proprio tutto, del consumatore, seguendone il suo percorso mentale ancora prima che di acquisto. È una rivoluzione, il Grande Fratello di Orwell è arrivato ed è a disposizione delle aziende per massimizzare e ottimizzare le proprie campagne. Siamo ancora agli albori e personalmente non riesco ancora a delineare la portata e il punto di arrivo di questa rivoluzione, ma sono certo che la new economy come la conosciamo oggi verrà fondamentalmente trasformata di nuovo. Un altro giro di giostra per tutti noi marketer.

E poi a chiudere il cerchio mette la sostenibilità. Ma non è oggi più un marketing del brand che un’effettiva modalità di comportamento?
Non possiamo continuare a produrre e sostenere l’attuale stile di vita se andiamo verso un esaurimento delle risorse naturali. La sostenibilità, ancora prima che una strategia di marketing, è una strategia necessaria e di sopravvivenza dell’azienda a medio termine e per questo va abbracciata non solo dal marketing, ma da tutta l’azienda con una revisione delle filiere produttive. Quindi ci troviamo di nuovo di fronte a un elemento fondamentale per il successo del brand nel futuro che non risiede nel marketing.

In tutto questo lei parla anche di un nuovo ruolo del marketing in azienda e di mutamenti organizzativi all’interno del marketing stesso…
Soddisfare il consumatore esperienziale significa arricchire la brand equity di elementi che molto spesso non risiedono nel marketing: esperienza in store (non definita né implementata dal marketing), storytelling (a volte gestita dal marketing, a volte dal direttore creativo), contenuti digitali sviluppati esternamente al brand e sostenibilità (totalmente trasversale e gestita da più funzioni). Il cambiamento organizzativo è sicuramente necessario per potere adeguatamente rispondere al cambiamento dei contenuti digitali. Ma non penso che sia l’unica soluzione. È cambiato totalmente il ruolo del marketing, che adesso deve uscire dai suoi confini e andare a parlare e sviluppare progetti con il resto dell’azienda. Bisogna ricominciare a dialogare col resto delle funzioni aziendali.

Ci parli di lei: com’è prendere armi e bagagli, famiglia compresa, e andare a fare il manager in Asia?
Ci vuole molta voglia di rimettere tutto in discussione e di abbandonare il comfort e i punti di riferimento che ci siamo costruiti a casa. Ma scegliendo bene la destinazione e affrontandola assaporando le culture locali è un’esperienza entusiasmante. E poi offrire ai propri figli la possibilità di diventare bilingue o trilingue in giovane età, nonché l’apertura mentale di confrontarsi ogni giorno con una decina di nazionalità diverse a scuola è semplicemente impagabile».

Pensa che un’esperienza internazionale, soprattutto nella più dinamica Asia, sia oggi un must per ogni manager che voglia crescere in tutti i sensi?
Dipende dall’azienda per la quale si lavora. Ovviamente nelle multinazionali l’esperienza internazionale è necessaria e l’Asia offre un trampolino quasi indispensabile per chi nutre ambizioni di carriera. Ma forse sì, in generale, anche le aziende italiane sono destinate alla ricerca della crescita tramite l’export e quindi anche per loro un manager che abbia acquisito conoscenze fuori dall’Italia, e soprattutto abbia acquisito un’apertura mentale e questa finestra sul mondo, è di grande valore.

Pur essendo a Hong Kong da tre anni è restato comunque associato a Manageritalia Milano, una bella fidelizzazione.
Quando racconto qui in Asia che sono iscritto a un sindacato in Italia la gente si sorprende molto. In realtà se si considerano tutti i servizi che vengono offerti, compresi i corsi veramente creativi del Cfmt, Manageritalia rappresenta il modello di quello che dovrebbe essere un vero sindacato nel futuro. E poi per un espatriato è forse anche un modo per mantenere il cordone ombelicale con l’Italia.

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