Al volante della comunicazione

Luisa Di Vita, associata Manageritalia Roma dal 2015, è stata di recente nominata direttore comunicazione di Nissan Italia. Forte di un lungo background nelle relazioni pubbliche e nel crisis management, ci offre il suo punto di vista sulle nuove opportunità legate alla sua carriera manageriale e su come trasmettere oggi i valori di un brand

Cosa vuol dire oggi essere manager nel campo della comunicazione?

Dal mio punto di vista oggi il paradigma del passato in cui la comunicazione trainava il business va in parte rivisto, credo che siano diverse le occasioni in cui le figure di comunicazione e marketing creino nuove opportunità di crescita, faccio l’esempio più facile: se il concept di un prodotto è ben lanciato è molto più probabile che raccolga consensi e poi diventi un modello core della Casa. Cerchiamo il modo di aggredire il mercato, lavorando sull’opinione di marca e sulle tendenze dei consumi prima degli altri, capire il sentiment degli utenti rispetto a un’idea per lavorarci fruttuosamente con le funzioni di ricerca e sviluppo e di pianificazione del prodotto. Oggi è fondamentale pianificare, presidiando tutti i contenuti e le piattaforme: brand, owned, search, influencer, stakeholder e media.


Quali sono i punti di forza da mettere in campo?


Sono due le leve fondamentali a mio avviso: la sharing economy e la digital trasformation. Il modello cooperativo – la sharing economy – è in grado di offrire sbocchi imprenditoriali anche fortemente connotati socialmente. La disponibilità e l’apertura al nuovo espressa da tante imprese ha aiutato a superare un certo timore di fronte alle sfide che queste nuove realtà propongono. In passato, i settori tendevano ad essere un po’ chiusi in
se stessi, facevano fatica a confrontarsi, a dialogare, a strutturare percorsi trasversali, comuni. E questo era un limite, perché l’emergere e l’affermarsi della sharing economy, come si è visto, tende ad abbattere i confini, supera le tradizionali distinzioni tra settori di automotive e energia, tra energia e telecomunicazioni e tra banche e assicurazioni, fra produttori di beni e di servizi, consumatori, finanziatori e cittadini. I padroni della rete vanno verso la finanza e strizzano l’occhio a tutto ciò che possa essere profittevole con un traguardo temporale più ampio rispetto alle colossali utilities tradizionali. Da qui la necessità di comprendere queste novità e di ragionare di più in modo trasversale e intersettoriale. L’open innovation apre le porte alla diversità e alla ricerca, temi finora al bando delle procedure imbrigliate delle grandi aziende, dalle rigidità delle funzioni di controllo e di procurement, che senz’altro tutelano i dipendenti e gli azionisti in una logica di profitto, ma d’altro canto rischiano di limitare la prospettiva di vita di un’azienda.
Per sostanziare la crescita virale e “contaminosa” fuori dai confini è necessario dunque mettere in campo investimenti in innovazione, soprattutto in campo digitale. La digital trasformation nelle imprese è un atto fondamentale che tutti siamo chiamati a fare per sopravvivere.



Come dare contributo e valore a un brand che vuole essere leader “nei veicoli elettrici” o, meglio, nell’“auto pulita”? Oggi in azienda, in qualsiasi azienda?


Noi lavoriamo con anni di anticipo perché siamo partiti prima di tutti circa un decennio fa, quando i produttori di case automobilistiche non credevano minimamente nell’elettrico. I protocolli internazionali di sfida al cambiamento climatico hanno posto tutti di fronte a un dilemma globale che progetta regolamenti sempre più ristrettivi sulle emissioni nocive e costringe tutti i produttori a rivedere i propri modelli di business e di produzione. Però da questa necessità è nata un’opportunità straordinaria, ovvero proporre un modello di mobilità pulita, meno onerosa e facilmente condivisibile con accessi a zone interdette alle auto tradizionali, come le zone a traffico limitato. Come dire in elettrico vado dovunque, ricarico dovunque e non c’è targa alterna che mi blocchi.


Brand reputation e crisis management sono due facce della stessa medaglia?


Sono due aspetti che collimano e non solo l’una il retro dell’altra. Creare valore di marca significa partire da un punteggio più alto che ti mette in parte al riparo da rischi esterni o interni. Se facciamo una metafora calcistica possiamo sostenere che essere in cima al campionato ti dà più punti in classifica, poi dipende sempre quanto è importante la partita che perdi e cosa fai per recuperare.


Quanto contano oggi la visibilità e la reputation dei manager aziendali e dei dipendenti per un brand?


Secondo il barometro del trust mondiale, le nostre analisi danno evidenza che sono cresciuti i social media e gli influencer come persone credibili nel costruire l’opinione positiva e la considerazione per un determinato prodotto. Sta tornando l’importanza del passa parola anche se viralizzato dalle piattaforme social, ma questo lavoro specifico non può prescindere dal tradizionale lavoro che si deve fare sul carisma del portavoce, sulla selezione delle audience e sull’attenta preparazione dei contenuti che vale anche per i dipendenti, primi ambasciatori del valore di un marchio.

Lei ha esperienze nel settore energia, turismo e lusso.

È importante avere un’esperienza poliedrica? E quali settori sono un must?

Non credo ci siano dei must in tal senso, ma cambiare fa parte della volontà di mettersi in discussione, di farsi conoscere e apprezzare. Costa molto dispendio di energie inserirsi in nuovi contesti e uscire dalla zona di comfort, ma nel mio caso ne è sempre valsa la pena.

Cosa fare per crescere professionalmente?

Lanciarsi oltre il proprio ruolo. Uscire dalla routine e vedere oltre i propri obiettivi. Come a fine pasto, lasciarsi lo spazio per il dolce apre quasi sempre altri orizzonti. Ingordigia di fare può avere senso solo se accompagnata da una robusta visione e preparazione.

Bisogna guardare anche all’estero e come?

Oggi si è chiamati alla delocalizzazione a tutte le età: il modello da giovane viaggio e da maturo stanzio non funziona più, si è invertito il paradigma culturale della carriera, anche perché le aziende sono sempre più globalizzate e i quartier generali sono ancora le sale dei bottoni. In questo, purtroppo, l’Italia non gioca un ruolo di primo piano, in quanto molti asset del made in Italy preziosi sono andati in mani straniere, le cui sedi principali sono spesso molto distanti.


Lei vive a Roma, che ambiente professionale c’è e come sfruttarlo?


Roma insieme a Milano creano ancora discrete possibilità di scambio professionale e sono fucine di eventi, seppure bisogna aver esperienza per selezionare quelle giuste e profittevoli.


Come fare networking a Roma con vantaggi per sé e l’azienda, magari anche divertendosi?


Divertirsi questo si è un must. Cerchiamo le soluzioni che sono più divertenti dei problemi. La prima leva motivazionale è farsi piacere quello che si fa, i giovani in questo posso essere dei grandi insegnanti.


Lei è iscritta a Manageritalia Roma: che rapporto e quali vantaggi ha con la sua associazione?


È un organismo completo che tutela il manager dalla formazione alla previdenza e assistenza sanitaria. Ci sentiamo seguiti e ben rappresentati.

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