Anche voi manager di tutto quello che è sport e del suo indotto siete stati coinvolti nelle Olimpiadi e tu sei stato quest’anno in Giappone. Un divertimento o una faticaccia che è diventata, come per gli atleti, il momento clou dove portare a casa risultati frutto di anni di lavoro?
«Amo il mio lavoro e quindi anche le tante ore consecutive allo stadio di solito non pesano molto. In Giappone è culminato il lavoro di molti anni per atleti e staff operativo e quindi abbiamo sopportato di buon grado la “bolla” in cui abbiamo dovuto operare per via delle precauzioni per il Covid. L’aspetto peggiore per tutti è stato ovviamente l’assenza del pubblico. In termini pratici si è ridotto il carico di lavoro, ma sono certo che tutti quelli coinvolti nei Giochi avrebbero preferito di gran lunga lavorare il triplo, ma con la soddisfazione di vedere tanta gente sulle tribune».
In particolare, tu perché sei stato in Giappone e cosa hai fatto, visto che non hai gareggiato?
«Da diversi anni opero come freelance con la Fifa per il suoi veri mondiali: di solito come coordinatore generale o come Stadium Manager; quest’anno ho invece operato come commissario di gara per le gare di entrambi i tornei, femminile e maschile».
Quanto tempo ci è voluto per preparare questo evento e quali Kpi hai adottato per uscirne managerialmente al meglio?
«La preparazione è continuativa durante il quadriennio olimpico di riferimento; ci sono occasioni sia in presenza che online per i diversi aggiornamenti a seconda dei ruoli operativi previsti; gli obiettivi sono principalmente legati al “delivery” dell’evento secondo le norme, i regolamenti e le attivazioni connesse ai diritti televisivi e alle sponsorizzazioni commerciali, garantendo sempre nel contempo un corretto equilibrio competitivo tra le squadre partecipanti».
Come sono state queste Olimpiadi con il Covid e senza pubblico?
«Come dicevo prima, sono state “diverse” nel vissuto come nelle reazioni. Il Covid ha evidenziato una volta per tutte come il cosiddetto “effimero” dell’intrattenimento sia in realtà molto reale nella sua essenza: esseri umani che si esibiscono per altri essere umani. Se manca questo scambio di energie, le cose hanno un valore molto diverso, e certo minore, almeno dal mio punto di vista… per parafrasare il testo di una canzone, “sono cose che facciamo non per vivere, ma per sentirci vivi …”».
Com’è la giornata di un manager alle olimpiadi?
«Spesso molto lunga, scandita da orari molto precisi e appuntamenti che si susseguono secondo schemi che hanno il compito di sincronizzare le varie attività necessarie e programmate; c’è sempre la possibilità di un imprevisto, ma sta alla capacità dei manager in campo saper “armonizzare” anche questi momenti inaspettati, per evitare che il prodotto “evento sportivo” possa avere problemi più ampi e di maggiore impatto».
Quali aspetti cogli dietro le quinte?
«Il dietro le quinte, come in ogni forma di spettacolo, ti mette a contatto con l’umanità delle persone che poi escono sul “palco” ad esibirsi, con i loro lati sia positivi che negativi, e spesso – dato che nella competizione sportiva vincono in pochi rispetto al totale dei partecipanti… – mostra come siano diversi i modi con cui gli atleti si rapportino a quella che viene comunemente chiamata “sconfitta”: oltre a questo, si vive l’entusiasmo e l’abnegazione dei “volontari”, senza i quali nessun evento moderno potrebbe avere luogo come lo vediamo. È necessaria una lunga e meticolosa preparazione per eventi che magari durano solo una manciata di secondi; e infine, ma non meno importante, la capacità di persone con origini, culture, abitudini e costumi alle volte molto diversi di “incontrarsi” e “confrontarsi” in un modo che solo lo sport e poche altre attività umane sanno “mettere in campo”».
Come sarebbero state queste Olimpiadi se non ci fosse stato il Covid?
«Innanzitutto sarebbero state al termine del quadriennio olimpico, cosa non certo banale, soprattutto per gli atleti. Poi, come già detto, sarebbero state più “reali”, nel senso della partecipazione. Basterebbe pensare al valore emotivo della cerimonia d’apertura con la presenza del pubblico a tributare il giusto riconoscimento agli atleti. E per finire sarebbero state certamente molto, molto meno costose per il popolo giapponese, che ha poi fatto uno sforzo davvero encomiabile per portarle a termine un anno dopo quello previsto originariamente».
Fare il manager dello sport è un divertimento o una faticaccia?
«Ho la fortuna di amare il lavoro che faccio ormai da qualche lustro e quindi la fatica passa spesso in secondo piano, anche al termine di giornate in cui si è stati “operativi” per 14/16 ore… anche una gran dose di pazienza serve a compensare una parte della fatica, soprattutto per quegli eventi che durano magari per qualche settimana. Si trovano anche spazi per il divertimento, soprattutto tra colleghi che magari in pochi giorni e sotto condizioni di stress, riescono anche a diventare davvero amici. Per quel che mi riguarda, e spero di non sembrare troppo strano, il divertimento maggiore è al termine dell’evento, quando senti dentro la soddisfazione per aver fatto bene la tua parte a favore di atleti, staff e pubblico… ed è la sensazione che ti spinge a chiederti subito “quando sarà il prossimo evento?”».
Basta essere un bravo manager o c’è qualche altra caratteristica da mettere in campo?
«Esperienza e capacità manageriali sono alla base; empatia e pazienza sono strumenti essenziali, dato che gestire eventi sportivi significa in ultima analisi gestire persone: che siano gli atleti, il pubblico, gli operatori dei media, i volontari, le forze dell’ordine e chiunque altro sia coinvolto. Poi ognuno ha spesso un suo “stile” che spesso, almeno per la mia esperienza, si riassume nel concetto “lead by example”: usare il proprio comportamento e atteggiamento per “settare” il tono della collaborazione e la capacità di andare oltre le difficoltà, magari impreviste, per garantire il risultato atteso».
Sport e management: un connubio che può e deve crescere?
«Nel nostro Paese, che pure raccoglie tanti successi in campo sportivo, sicuramente sì; abbiamo un’assoluta necessità di professionalizzare le strutture che si occupano di sport su moltissimi livelli, andando oltre il mecenatismo o il nepotismo, che per molto tempo sono stati i due estremi entro cui ha oscillato tutto il nostro sistema sportivo. La globalizzazione di tutte le attività sportive, i numeri che le industrie collegate allo sport generano, la necessità di non disperdere nessuna energia e l’importanza che l’esempio del sistema sport può avere a tutti i livelli della nostra moderna società sono i motivi che dovrebbero spingere tutto il sistema sportivo italiano in questa direzione».