Dante, nel canto x del Purgatorio, parla con ammirazione dell’imperatore romano Traiano. Un giorno l’imperatore, «in marcia verso la Dacia in armi», viene fermato da una vedova che chiede giustizia per il figlio ucciso.
… i’ dico di Traiano imperadore; e una vedovella li era al freno, di lagrime atteggiata e di dolore.
Intorno a lui parea calcato e pieno di cavalieri, e l’aguglie ne l’oro sovr’essi in vista al vento si movieno.
La miserella intra tutti costoro pareva dir: «Segnor, fammi vendetta di mio figliuol ch’è morto, ond’io m’accoro».
Traiano la rassicura subito, promettendole che avrebbe provveduto al suo ritorno. La vedova, però, gli ricorda che sarebbe potuto non tornare: Traiano le garantisce che in quel caso ci avrebbe pensato in sua vece il suo erede-successore. La vedova lo incalza e gli fa notare che in quel caso non avrebbe mantenuto la sua promessa, perché non ci avrebbe pensato lui di persona e anche se le fosse stata resa giustizia non sarebbe stato per merito suo. Traiano allora smonta da cavallo, cerca e punisce personalmente il colpevole; in questo modo rende davvero giustizia alla vedova e solo allora riparte per la guerra.
Dante rileva la grandezza di Traiano che antepone la necessità di giustizia della vedova ai suoi interessi e la priorità del suddito davanti all’imperatore. Solo l’umiltà del grande davanti al piccolo legittima la sua autorevolezza.
Parlare oggi di autorevolezza nelle organizzazioni è un tema centrale e delicato. In tutte le strutture produttive e di servizio, nel nostro paese, si vive una profonda crisi di affidabilità del management, il quale stenta a fornire cornici di senso e prospettive di stabilità. Conformismo, difficoltà nell’assunzione di responsabilità, paralisi decisionale e lentezza gestionale sono tutte caratteristiche comuni a una parte consistente dei vertici delle organizzazioni pubbliche e private italiane. E da parte dei lavoratori non c’è tanto insofferenza verso l’eccesso di autorità quanto, al contrario, rammarico causato dalla sua latitanza. Sembrerebbe che l’intera società italiana sia alla ricerca di una guida credibile; ma quello che si respira nella società civile si riflette anche nel micro di ogni singola azienda. Si sente talvolta perfino una certa qual nostalgia della vecchia impresa padronale, sana e affidabile, guidata da una borghesia illuminata, dotata di buona reputazione, in cui tutti sentano di poter avere fiducia.
L’attendibilità del management, invece, oggi ha raggiunto livelli particolarmente critici. Nelle imprese vi è disaffezione, serpeggia la sensazione che si navighi sempre a vista, che nessuno abbia davvero il controllo della situazione. L’imprenditoria italiana sempre meno rischia del suo e il management in questi anni mediamente non ha raggiunto performance tali da renderlo credibile anche per il futuro. Le persone si sentono così precarie, perfino quando non ve n’è motivo oggettivo. Il senso collettivo d’insicurezza in molti casi non consiste nel concreto pericolo immediato per il proprio posto di lavoro, ma per le prospettive che stentano a emergere, non solo per le difficoltà oggettive (che nessuno può dimenticare), ma anche per la pochezza di un apparato dirigente i cui meccanismi di selezione stanno mostrando tutti i loro limiti.
Una nota ricerca condotta da Paola Sapienza, Luigi Guiso e Luigi Zingales su dati americani di Great Place to Work mette in relazione i valori conclamati da ogni singola impresa con la sua performance economica. Le conclusioni di quella ricerca sono sicuramente controcorrente: i valori dichiarati dalle aziende di cui teoricamente bisognerebbe andar fieri (centralità del cliente, innovazione, qualità ecc.) non sembravano incidere in alcun modo sulla performance aziendale. L’unico elemento correlato positivamente con il ritorno sulle vendite, il valore azionario di mercato a parità di asset e la desiderabilità come datore di lavoro, era la reputazione presso i dipendenti del top management in termini d’integrità, coerenza e grado di affidabilità. Secondo le ultime ricerche, i collaboratori si mostrano motivati e spingono la performance aziendale non tanto quando l’impresa si muove secondo criteri teoricamente ineccepibili, ma solo quando l’azionista e il management si mostrano coesi. I lavoratori si fidano solo quando vedono allineamento tra CdA, top management, dirigenti e quadri. Integrità e coerenza sembrano pagare più di altri criteri magari in sé più pregnanti. Le persone vogliono vedere la squadra di vertice credere nella via che si sta prendendo e non amano inutili lotte intestine. I risultati aziendali sembrano dar loro ragione.
Interessanti da questo punto di vista, i dati raccolti dall’Osservatorio aub sulle imprese di famiglia italiane, promosso da AIdAF (Associazione italiana delle aziende familiari), Unicredit e Camera di commercio di Milano. L’Osservatorio ha analizzato i bilanci di tutte le 4.100 imprese familiari italiane con ricavi di almeno 50 milioni di euro, che rappresentano il 58% del totale delle aziende di dimensioni analoghe operanti nel nostro Paese. Da quest’analisi emerge che nel periodo 2009-2013 le imprese familiari hanno incrementato il loro fatturato di 10 punti in più rispetto alle non familiari. Nello stesso periodo l’incidenza delle aziende con risultati negativi è inferiore nella categoria delle familiari (6% contro l’11% delle non familiari) e che le aziende familiari nel corso del 2013 hanno ulteriormente ridotto la propria dipendenza dal capitale di terzi (migliorando dunque il proprio livello di patrimonializzazione) senza compromettere la propria propensione a investire. Il limite delle aziende familiari rimane invece quello del ricambio generazionale, al punto che un quinto delle aziende con più di 50 ml di fatturato ha un leader ultrasettantenne. Detto in altri termini, quando l’azienda ha un leader riconosciuto con le spalle coperte da un azionariato solido le performance arrivano in misura maggiore. Quando però si tratta di rinnovare il vertice, la loro fragilità emerge improvvisamente.
Anche l’ultima ricerca isfol-siav-Confindustria Veneto rileva come uno degli elementi vincenti tra le imprese che stanno reagendo positivamente alle difficoltà poste dalla crisi, risieda nella solidità della governance, talvolta assai più importante delle sue specifiche competenze tecniche. Gli elementi che caratterizzano la stabilità e autorevolezza di una governance non sono solo di carattere economico o manageriale, malgrado ovviamente l’importanza di questi fattori. L’elemento che più sembra incidere sul successo aziendale è l’omogeneità d’intenti e di vedute degli azionisti e del top management. Le lotte di vertice sono viste come fumo negli occhi da parte della gran massa dei lavoratori, i quali in questi casi perdono facilmente fiducia. Ai temi dell’allineamento del team di vertice si dedica poco tempo, sia da parte del top management sia da parte della proprietà, talvolta anche solo per quieto vivere. Le ricerche fin qui fatte, però, ci dicono che questa mancanza rischia di essere fondamentale. La variabilità dei mercati e il crescere della concorrenza richiedono sempre più spesso modifiche di rotta o flessibilità autonoma da parte della struttura che non sempre può attendere l’imprimatur del capo azienda. Se non vi è però allineamento tra questo e il resto del suo team manageriale, le deleghe, anche quando ci sono, stentano ad essere pienamente utilizzate e ben presto l’execution diventa il primo problema dell’impresa.
Come diceva mia nonna, il pesce puzza sempre dalla testa…
Tratto da L’alfabeto del leader – Compedio semiserio per manager colti (Guerini Next).