Come favorire l’automotivazione!

Una forza intrinseca per raggiungere i nostri obiettivi e ispirare gli altri per superare le sfide nella vita e sul lavoro

Il mondo è pieno di leggende sul funzionamento della motivazione umana. Questa indeterminatezza è funzionale alla creazione di una serie di alibi. Nel mondo sportivo, come in quello del business, fa sempre molto comodo pensare che la tua motivazione non ti appartenga, che dipenda dall’esterno e che te la debbano dare gli altri. Così in tutte le organizzazioni ci sono persone che incolpano la genetica, il capo, o qualche altra entità indefinita per giustificare la propria demotivazione.
Da tempo nelle organizzazioni ci si è resi conto di quanto la motivazione esterna (basata cioè su quella che gli psicologi definiscono “motivazione estrinseca”) sia poco efficace. È il retaggio del “modello motivazionale dell’asino”, basato sull’assunto che gli esseri umani siano simili al citato quadrupede. E che, di conseguenza, per motivarli sia sufficiente un mix di incentivi (carota) e coazione (bastone). Il modello dell’asino poteva funzionare, pur con molte criticità, nel mondo del lavoro del passato, caratterizzato da obiettivi più stabili, minore incertezza, basso livello di cambiamento. Oggi non funziona più.

Dobbiamo
riapprendere tutto?

La globalizzazione ha esasperato la competizione economica, rendendo permanente il cambiamento nel mondo del lavoro. L’obsolescenza delle conoscenze rende continuamente superate le proprie competenze: secondo il World Economic Forum, il 30% delle conoscenze strategiche necessarie per qualsiasi tipo di lavoro saranno sostituite da nuove competenze ogni anno. Ecco prevalere un contesto dove continuamente cambiano il sapere, le competenze, gli obiettivi e le procedure. Un mondo dove devi saper continuamente ripartire da capo, riapprendere tutto. Più e più volte nel corso di una vita. Un mondo faticoso. Dove non puoi più imboscarti o vivacchiare. Un contesto del genere è inconciliabile con il modello dell’asino: è infatti impensabile che le organizzazioni rincorrano quotidianamente le persone per spingerle a cambiare, ad adattarsi e ad aderire a obiettivi in mutazione perenne.

L’automotivazione
non si genera
Questo richiede che le persone adottino forme più avanzate di motivazione: quella evolutivamente più moderna è quella che gli psicologi definiscono “motivazione intrinseca” o “auto-motivazione”. Nel linguaggio comune la chiamiamo “passione” e ci riferiamo ad essa per indicare un tipo di motivazione che si genera spontaneamente, senza bisogno di una spinta esterna, capace di durare a lungo, superare ogni ostacolo e produrre un piacere legato all’attività stessa.
A questo punto nel lettore potrebbe prodursi una domanda: stiamo parlando di portare più passione nelle organizzazioni? Un interrogativo che ha sapore di utopia. In realtà, quello che propongo non ha nulla di chimerico: chiarendo una volta per tutte come funziona la passione negli esseri umani possiamo delineare anche una metodologia per allenarla. E ciò rappresenta un’alternativa alla concezione passiva e fatalistica della motivazione. Nello scrivere il libro Opus, che tratta proprio di questo tema, mi sono basato su due ordini di dati: venticinque anni di lavoro a contatto diretto con campioni della motivazione come gli atleti di alto livello e le ricerche neuroscientifiche sull’argomento pubblicate negli ultimi anni.

Un “trucco” dell’evoluzione

Innanzitutto: la motivazione ha un significato evoluzionistico e non appartiene solo a noi “umani”. Essa compare sulla faccia della terra alcune centinaia di milioni di anni prima della nostra specie. È un “trucco” inventato dall’evoluzione per aumentare le chance di sopravvivenza. La motivazione primaria, infatti, rinforza i comportamenti legati alla sopravvivenza attraverso un sistema di gratificazione anticipata. Poniamo, ad esempio, che un animale debba mangiare; però potrebbe anche essere debole, stanco – magari ferito – e tentato di arrendersi. Ecco allora intervenire il sistema dopaminergico che, fornendogli un piacere anticipatorio della meta da raggiungere, lo spinge fortemente a cercare la gratificazione dell’obiettivo. Ciò che noi definiamo come “acquolina in bocca” non è altro che il piacere anticipatorio che ricorda all’animale la meta da raggiugere; e che lo fa muovere (“motivazione” viene dal latino motus) verso di essa.

Per raggiungere un obiettivo occorre che entri
in gioco il desiderio

Il sistema dopaminergico della gratificazione anticipata è alla base di tutti quei fenomeni che noi umani definiamo come “desiderio”. Queste considerazioni ci segnalano una cosa fondamentale: tutte le nostre passioni nascono da un’impronta dopaminergica. In altre parole, quasi mai basta volere razionalmente un obiettivo per raggiungerlo: occorre che entri in gioco il desiderio. Ma c’è un’altra cosa interessante da sapere: la spinta dopaminergica funziona a breve termine. Se dopo poco tempo l’obiettivo non viene raggiunto, essa si spegne.
Questo non è un problema nel contesto della vita animale, dove ci si confronta con obiettivi chiari, semplici e raggiungibili a breve termine. Tuttavia gran parte dell’esistenza umana è imperniata su obiettivi difficili e a lungo termine. Oppure su obiettivi routinari e privi di gratificazione istintiva. Il sistema dopaminergico qui funziona e smette di funzionare.
Come funziona
la resilienza
Il nostro cervello ha però sviluppato delle aree specifiche, identificabili in gran parte nelle aree pre-frontali della corteccia, capaci di spingerci verso l’obiettivo anche senza gratificazione. Questa capacità di dilazionare la gratificazione è stata fondamentale nell’evoluzione degli ominidi. Il saper “tenere duro” è una competenza alla base dell’eccellenza in tutti i campi, una caratteristica peculiarmente umana.
Oggi definiamo questa capacità come resilienza: essa consente alle persone, se poste di fronte a una difficoltà, di agire per modificare le cose. Anche in assenza di gratificazione, anche di fronte alla sofferenza. Quando questa competenza è bassa, le persone invece non agiscono per cambiare le cose: impiegano le loro energie per piangersi addosso, per pretendere che il mondo funzioni in modo gratificante, ovvero secondo i loro desideri. Questo genera il vittimismo o il ricorso continuo agli alibi tanto diffusi nelle organizzazioni.

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