Come è vissuto oggi il lavoro in generale e in particolare dalle varie generazioni?
«Il lavoro sta attraversando una fase di forte trasformazione che riguarda sia i contenuti in relazione agli impatti delle tecnologie, sia il ruolo che ad esso attribuiamo. Questa trasformazione è difficile da inquadrare perché fa riferimento a schemi nuovi anche per la ricerca. Da una logica di più o meno serena accettazione dello status quo siamo passati a un continuo giudizio, anche molto deciso. Permane, forse, un diverso ritegno nell’esprimersi in modo franco e aperto da parte delle generazioni più mature. C’è anche maggiore pazienza nell’attendere che le cose si sistemino. I giovani risultano più trasparenti e a volte più intransigenti rispetto all’ambiguità del contesto lavorativo».
Cosa serve in azienda per motivare e coinvolgere tutti, per ingaggiarli davvero verso un obiettivo comune?
«Per molto tempo la gerarchia ha rappresentato uno strumento valido non solo per coordinare il lavoro, ma anche per plasmare i sistemi di valore e allineare le persone. La sua crisi rende necessario impostare i processi di comunicazione e di influenza su una logica di condivisione. Per farlo, però, non basta richiamare modelli e analogie come quelli del team sportivo o della famiglia: occorre costruire l’adesione ogni giorno, con apertura al confronto e capacità di accettare anche il dissenso. Questo è urgente, perché molti dei modelli che vengono utilizzati non parlano il linguaggio di generazioni che spesso possono, ad esempio, associare alla famiglia l’idea di disfunzionalità e non quella romantica di rifugio sicuro».
Come far collaborare al meglio le persone?
«Nella storia dell’uomo non abbiamo mai avuto strumenti di collaborazione così potenti. Le tecnologie digitali e quelle di trasmissione rendono possibile una relazione di collaborazione a distanze siderali. Non solo, la digitalizzazione tiene traccia delle nostre interazioni e ci aiuta a coordinarci. Se ciò non avviene, quindi, dobbiamo indirizzarci verso aspetti che riguardano la volontà di collaborare, la presenza di conflitto personale o di potere, codici di interpretazione della comunicazione non ben allineati. Vedo meno il tema del conflitto intergenerazionale, o quanto meno non lo vedo diverso da quello che le organizzazioni hanno saputo superare in tante altre fasi della loro storia».
Come deve cambiare l’organizzazione del lavoro per mettere le persone di ogni generazione, genere e grado, di dare il meglio, aumentando benessere, produttività e competitività?
«Uno degli aspetti più interessanti della società che viviamo è la frammentazione, anche dei riferimenti sociali. Questo rende più difficile cogliere appieno le esigenze delle categorie con cui aggreghiamo le persone. Sebbene lo si faccia, risulta sempre più scorretto ritenere che le diverse generazioni siano omogenee. Al punto che talvolta sembra che l’eterogeneità sia maggiore dentro le singole categorie generazionali che tra ognuna di esse. I singoli Boomer e Generazione X, che risultano i più anziani, faticano a riconoscersi in sistemi di valori fortemente allineati, anche se per abitudine usano queste categorie nelle loro analisi. Il mio consiglio a chi gestisce le organizzazioni è di uscire da queste semplificazioni e dare ascolto individualizzato a tutte le persone perché, forse, il vero discrimine riguarda caratteristiche che fatichiamo a cogliere. Risulta interessante, ad esempio, quello che stiamo scoprendo sulla neurodiversità, tema messo al centro di nuovi modelli di gestione da organizzazioni come Booz Allen e Bank of America».
Qual è il ruolo dei manager oggi, cosa devono fare e se e come devono cambiare?
«Mai come oggi fare il manager significa mantenersi informati su quello che ci circonda. Siamo in una fase storica nella quale la sperimentazione nelle organizzazioni ha raggiunto livelli impensabili. Ogni giorno, testate come il Wall Street Journal, The Economist e il Financial Times presentano nuove idee su come organizzare il lavoro, gestire i collaboratori e crescere personalmente. Non possiamo concentrarci solo su quel poco che ogni singola organizzazione può fare. Sta a noi recuperare spazi di lettura, incontro, scoperta e confronto. Una piccola provocazione: parlare meno e ascoltare di più. Anche nei convegni, dove sembra che a dominare sia la necessità di far vedere cosa facciamo. Tutto questo è ancora più vero per i processi che riguardano il cambiamento demografico della forza lavoro».
Ci sono dei casi virtuosi, e quali?
«Citavo poco fa Booz Allen e Bank of America, ma in generale i casi virtuosi sono quelli di organizzazioni che aumentano lo spazio per l’espressione della propria libertà e delle proprie esigenze all’interno dei contesti di lavoro. Serve molta tolleranza in un mondo nel quale sembra difficile trovarla. A fronte di un rigurgito di normatività, nelle organizzazioni si deve creare una zona franca che ci consenta di esprimerci. Senza libertà difficilmente può esserci crescita e collaborazione».
Quindi, da dove partiamo e per arrivare dove?
«L’osservazione senza giudizio, ma con la passione di ciò che ci appare nuovo è, per la mia esperienza, la strada migliore per comprendere le nuove generazioni e, in generale, un mondo che ci sta cambiando attorno. Lo vedo nel rapporto con i miei studenti e i collaboratori. Si aspettano rispetto, ma con una connotazione diversa da quella della mia generazione. Il rispetto era attribuito all’esperienza e anche all’età anagrafica, mentre oggi va declinato in ogni relazione e passa per l’ascolto, anche quando siamo convinti di sapere di più e meglio. Al di là di poter essere piacevolmente sorpresi, come mi accade spesso anche in aula, potremo costruire un rapporto di vera legittimazione, che, rispetto al passato, dobbiamo conquistare e meritare, non ci viene regalata».
Arriveremo a ridare senso e capacità di realizzazione al lavoro di tutti? Lei ci crede? E, se sì, perché?
«Una domanda molto difficile a cui rispondere in chiusura di questa conversazione. Personalmente sono stato influenzato da utopie positive nelle quali la quadra di cui si parla sembrava possibile: penso a capolavori di fantascienza televisiva come Star Trek o Doctor Who. Il problema, a mio avviso, rimane sempre lo stesso e ha a che fare con la gestione del potere. Molte delle difficoltà che viviamo non sono legate alla possibilità di ridare senso e capacità di realizzazione al lavoro di tutti, ma all’accettare che per farlo dobbiamo rinunciare a una parte del nostro potere. Sono tutto fuorché un seguace affascinato di teorie collettiviste, ma penso che ci sia lo spazio per un modello più democratico e libero di governo delle organizzazioni».