Esiste un luogo in Italia, a pochi chilometri da Milano, che rappresenta un significativo simbolo del lavoro a livello mondiale: Crespi d’Adda. Un villaggio operaio modello, iscritto nel 1995 nella lista dei luoghi del Patrimonio dell’Umanità. Un posto da visitare assolutamente per comprendere come l’industria sia stata in grado di modellare il paesaggio geografico e umano del territorio nel quale si è insediata. Si tratta di un luogo minuscolo, “come un guscio di noce”, farebbe dire Shakespeare a un moderno principe di Danimarca, ma che racchiude un’infinita, emblematica e straordinaria esperienza sociale e industriale. È una vera e propria città costruita per alimentare un progetto aziendale attraverso una volontaria e cosciente azione manageriale e di leadership novecentesca pensata per adattarsi perfettamente alle esigenze coeve e alle necessità contingenti. E se, per l’appunto, il Novecento è stato il secolo in cui è emersa la consapevolezza che il mondo non è così ordinato come lo immaginavamo prima, a Crespi d’Adda garantire il funzionamento di un meccanismo industriale cotoniero significò plasmare i caratteri dei propri lavoratori per creare uno spirito corporativo che accettasse acritico la sofferenza, ringraziando addirittura coloro che gliela somministravano.
Un contesto all’insegna dell’efficienza
Non è certo stato un compito semplice introdurre alle lavorazioni industriali, basate sull’ordine e sugli orari, una popolazione per lo più analfabeta proveniente dal lavoro agricolo e poco avvezza a una qualsiasi gerarchia di fabbrica. Per questa ragione, qui, la famiglia dei fondatori, i Crespi “Tengitt”, cercò di fare dell’individuazione e soddisfazione dei bisogni elementari della popolazione, sino alla riduzione massima del vivere sociale in vivere biologico, una base ideale del proprio agire progettuale finalizzato alla costruzione di una civiltà senziente, obbediente e non riottosa. La creazione di un contesto sociale in cui, in un certo qual modo gratuitamente già all’inizio del secolo scorso, erano garantiti alle maestranze servizi innovativi come l’abitazione dotata di luce elettrica, la scuola elementare, l’ambulanza medico-chirurgica, il teatro, il centro sportivo, i bagni pubblici con la piscina coperta, il dopolavoro e perfino il cimitero: ciò consentiva di distogliere gli abitanti da ogni possibile preoccupazione materiale per lasciare che si dedicassero soltanto a lavorare e a produrre nella maniera più efficiente possibile.
La perla è la malattia della conchiglia
Volendo paragonare tale approccio, denominato paternalismo industriale, ad alcune recenti ricerche universitarie dedicate alla genitorialità, sviluppate una presso la Queensland University of Technology dalla psicologa australiana Judith Locke e l’altra dalla sua collega cinese Yufang Bian della Normal University di Pechino, è possibile mettere in evidenza l’importanza dell’influenza dei genitori in relazione all’attitudine, all’intraprendenza e alla leadership dei propri figli arrivando alla conclusione che più i genitori sono iperprotettivi e meno permetteranno lo sviluppo di queste abilità nella loro progenie. Allo stesso modo, la metodologia imprenditoriale messa in pratica a Crespi d’Adda ha palesemente contribuito a formare una popolazione acritica e passiva. È Karl Jaspers, uno dei più significativi esperti di psicopatologia del Novecento, che ci aiuta a meglio decodificare il progetto crespino attraverso la straordinaria metafora che era solito usare nelle discussioni inerenti all’arte: “Ogni volta che ammirate un’opera d’arte vi comportate come quando ammirate una perla, dimenticando che la perla è la malattia della conchiglia”. Esauriente ed esaustivo.
La tecnica come principio organizzativo
È del resto la tecnica, e non il progresso, il principio organizzativo di quella società industriale novecentesca che prevede la cosciente e scientifica trasformazione di tutti gli elementi della vita umana in semplici funzioni meccaniche. In questo senso, il cotonificio Benigno Crespi fu il produttore di norme cogenti e preconfezionate che obbligavano i lavoratori ad eseguire gli ordini, e a pensare, esclusivamente conto terzi, le modalità di approccio non soltanto a sé stessi e agli altri, ma anche al mondo che li circondava. È così che il singolo individuo venne trasformato in mero strumento di un apparato, annientandone l’unicità per renderlo parte di una massa acritica di persone che hanno la stessa funzione, favorendo e sostenendo un ineluttabile conformismo sociale in grado di trasformare il dramma singolare in melodramma plurale, in una sorta di reductio ad unum che ammicca all’immagine di quel Leviatano magnificamente descritto dal filosofo inglese Thomas Hobbes.
Un’esperienza sociale altamente formativa
Quello dell’impresa, del resto, fu l’asse intorno al quale ruotava l’universo locale in cui la massa di uomini senza identità fu soltanto carne utile a movimentare i telai e a celebrare i successi dell’imprenditore cotoniero. Ecco allora che mentre l’imprenditore cotoniero viene osannato come illuminato proprio da quella stessa discendenza operaia che smarrisce gradualmente le sue diottrie, io strenuamente mi oppongo. Fatte salve le indiscutibili migliorie abitative e sociali, mi avverso a una visione manageriale che mette la fabbrica davanti all’uomo e che, soprattutto, sottrae a quest’ultimo l’attitudine ad affrontare la complessità. Un’esperienza sociale, questa, che mi ha però consentito di riflettere su come possa essersi modificata l’attitudine manageriale negli ultimi cento anni in maniera pressoché epidermica, poiché è qui che sono profondamente conficcate le mie radici, non solo genealogiche. Infatti io a Crespi d’Adda, come professionista, ci sono nato ed è in questo spigolo di Lombardia che ho mosso i primi passi della mia formazione culturale. Se non fosse stato per tutte quelle inenarrabili difficoltà che ho trovato negli anni Novanta quando, volendo costruire un progetto pubblico di valorizzazione culturale del luogo, cercai a lungo, ma inutilmente, di dialogare con una politica stantia, grigia e sorda a certi valori, non avrei mai potuto esercitarmi in quel percorso di riflessione e risoluzione dei problemi che oggi mi facilita l’attività quotidiana.
Un modello di leadership in voga ancora oggi
Del resto, pensavo ingenuamente che la difficoltà di affrancare la cultura dalla diffusa opinione che non servisse a nulla, e che dovesse sempre essere il fanalino di coda del bilancio comunale, non fosse un ostacolo insormontabile. Paragono quel periodo storico, e soprattutto quell’esperienza di per sé negativa, estenuante e deludente, all’allenamento di Abebe Bikila, che correva in quota e con un copertone legato alla schiena. Così come tali estenuanti fatiche gli permisero, nel 1960, di vincere agilmente l’oro olimpico della maratona senza indossare scarpe, sono convinto che una delle abilità di un manager debba necessariamente essere quella di trasformare ogni problema in un’opportunità di imparare qualcosa di buono anche dalle situazioni più dolorose e contraddittorie e di trarre ispirazione dalle esperienze di altri. E, in questo senso, al contrario, l’esperienza di Crespi d’Adda ha molto da insegnarci poiché il modello di leadership crespina è ancora oggi in voga in molte aziende, nonostante la sua obsolescenza darwinistica.
Il manager è un osservatore che favorisce il pensiero critico
Oggi, per me, essere un manager significa prima di tutto mettersi al servizio dell’organizzazione e fare crescere i propri collaboratori operando esattamente all’opposto di quella che fu la metodologia gestionale di Cristoforo Benigno Crespi e del figlio Silvio Benigno. Sono infatti convinto che per mantenere un’elevata flessibilità organizzativa e trasformare tutti i membri di un’organizzazione da meri esecutori meccanici di ordini o di azioni prescritte (come potevano considerarsi gli addetti crespini al funzionamento dei telai) in agenti proattivi dotati di capacità di giudizio e autonomia di pensiero, il leader, da manipolatore e sostenitore del divide et impera, debba diventare un insistente generatore di stimoli e difficoltà, trasformandosi in un creatore di contesti dialettici votati alla diffusione della conoscenza. In un mondo interconnesso come il nostro, l’esercizio della leadership dovrebbe mirare a moltiplicare i punti di osservazione, le esplorazioni e il pensiero critico, e a non obbligare a seguire pedissequamente la strada indicata dal capitano di industria che, un tempo, era l’unico portatore di verità e, quindi, necessariamente limitato. Lungi dal ridurre il numero delle menti pensanti, che fu il mantra dell’esperimento crespino, ho imparato che occorre moltiplicarle. Lungi dallo scegliere un unico destino, è indispensabile incoraggiare la continua e contemporanea ricerca di nuove soluzioni. Lungi dal ricercare e coltivare l’omogeneità comportamentale, come fecero nel Cotonificio Benigno Crespi, occorre accogliere la diversità di pensiero e renderla indispensabile compagna di viaggio.
Generare comportamenti responsabili
Non si tratta di creare un contesto democratico o mediocratico in cui si applica l’utopica e fallimentare idea dell’uno vale uno, ma di estendere la consapevolezza aziendale a livello collettivo. Il vero manager non è colui che ambisce a essere il decisore ultimo, ma colui che mette gli altri nelle condizioni migliori per poter comprendere quanto accade intorno e poter decidere in autonomia. Non uno sopra tutti ma l’uno per tutti e tutti per uno declamato dai moschettieri di re Luigi XIV. Al contrario delle modalità operative di Silvio Benigno Crespi, il leader non deve prescrivere attività e indirizzare i comportamenti dei suoi collaboratori, ma deve creare un contesto atto a favorire l’emergere di comportamenti responsabili, analitici, cooperativi e vantaggiosi che, divenuti di dominio comune, rendono l’azienda agile, efficiente, rapida ed efficace.
Oggi da una figura manageriale ci aspettiamo la capacità di entrare in sintonia con il contesto e di plasmarlo per raggiungere gli obiettivi aziendali, sociali ed economici utili alla comunità: questo non si ottiene con il semplice insegnamento disciplinare, bensì con l’abitudine a confrontarsi su ambiti articolati e compositi come quelli sociali e organizzativi. E l’allenamento ad affrontare la complessità, in un sano contesto basato sulla fiducia e sull’intendere il potenziale errore come strumento di crescita: è uno dei doni più grandi e generosi che possiamo consegnare ai nostri collaboratori.
L’uomo come fine
Mark Twain diceva che «l’istruzione è il percorso dall’ottusa ignoranza alla miserabile incertezza». La formazione è importante, certo, ma è il dubbio che ci deve accompagnare nella gestione delle nostre azioni quotidiane. Un dubbio sano, propositivo e pervicace, che cresce sulla competenza ma che si pone costantemente la medesima domanda: «come possiamo fare meglio?». A differenza dell’esperimento crespino, sono convinto che occorra kantianamente considerare l’uomo come fine e non come mezzo. L’alienazione, infatti, non è soltanto quella descritta da Karl Marx, per il quale il lavoratore sarebbe un soggetto alienato dal momento che produce più di quel che guadagna: l’alienazione più radicale è quella di lavorare per altri senza realizza re se stessi e senza una reale partecipazione emotiva e sentimentale al progetto di cui si è parte. È per questo che la vera occupazione di un manager dovrebbe essere quella di incoraggiare i propri collaboratori a migliorarsi come esseri umani per essere pronti a sfidare quotidianamente la complessità di un contesto globale e in costante mutamento all’interno di un progetto che ambisce a qualcosa di più che l’incremento del fatturato annuale. Potremmo chiamarlo un dividendo morale.
Dare senso al lavoro
Io credo nella sacralità del lavoro e sono profondamento convinto che il lavoro possa e debba essere la leva indispensabile per lo sviluppo dei propri talenti e delle proprie potenzialità umane e professionali. Lo considero il principale strumento per la completa realizzazione della propria identità. Mi piace ricordare che nel suo libro intitolato Memorie da una casa di morti, Fëdor Dostoevskij considera che la vera tortura a cui erano sottoposti i prigionieri dei campi di lavoro siberiani non fosse tanto la terribile durezza del loro lavoro forzato ma la sua deliberata e completa inutilità che impediva, per sua stessa natura, qualsiasi possibilità di gratificazione. È dando un senso a quello che si fa che si permette di essere non mero strumento, ma agente critico e consapevole della nostra crescita. È questa la ragione per la quale la nostra Repubblica si fonda sul lavoro, perché è o può essere il mezzo attraverso il quale ci possiamo esprimere e realizzare come esseri umani. Per questo la creazione di una cultura aziendale profonda e condivisa è fondamentale.
Lo sviluppo di una “mente aziendale”
Lo sviluppo di un cervello collettivo permette all’azienda di avere molteplici punti di osservazione e una pluralità di opinioni da cui trarre la sintesi più adatta ad affrontare la complessità del mercato e della propria evoluzione. Non è più il tempo dell’uomo solo al comando ma è giunto il momento di un agire utilizzando una sinapsi sociale composta da tutte le menti aziendali. Non è più il tempo della mera competenza tecnica, ma delle abilità sentimentali. L’accademico armeno Vartan Gregorian giustamente affrontava il paradigma di questo mutamento sostenendo che «abbiamo bisogno di una scuola di specializzazione per diventare generalisti», e quanto devo dargli ragione! È di certo utile tenere a mente le sagge parole dello psicologo americano Abraham Maslow, che sosteneva che «se l’unico strumento che hai in mano è un martello, ogni cosa inizierà a sembrarti un chiodo». Oggi, per evitare di percepire intorno a sé soltanto borchie, sono ben altri gli attrezzi che un manager deve avere a disposizione: la costante curiosità, la capacità di sintesi dei problemi, la resistenza alle difficoltà, l’empatia con i propri collaboratori e la misura. Soltanto così le sfide quotidiane dell’azienda potranno essere adeguatamente decodificate consentendo all’impresa di poter guardare al futuro con coscienza dei propri mezzi e con adeguata ambizione.
Per informazioni, prenotazioni e visite guidate al villaggio operaio, al museo partecipato, all’interno della centrale idroelettrica e nel cotonificio, rivolgersi all’Unesco Visitor Centre, sito in Corso Manzoni 18 a Crespi d’Adda (aperto dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 12,30, sabato, domenica e festivi dalle 9 alle 19), chiamando lo 0290939988 oppure lo 029091712 (centralino sempre attivo).
www.visitcrespi.it
www.crespidadda.it