Donne manager, oltre lo status quo

Con una sbalorditiva ricorrenza di principi, il pensiero delle studiose di management dei due secoli passati si salda con le pratiche delle manager di oggi. Ne parliamo con Luisa Pogliana, che nel suo ultimo libro Una sorprendente genealogia ricostruisce la storia del pensiero femminile nel management dall’Ottocento ad oggi

Partiamo dal titolo del libro: Una sorprendente genealogiaPerché le donne nel management sono una genealogia e, ancor più, sorprendente?
«Ho sempre dato valore all’esperienza, che si trasmette tra persone e generazioni. E visto che noi donne pensiamo in modo differente dagli uomini, ho ritenuto che dovesse esistere un pensiero femminile nel management, non limitato alle rare studiose note, ma a quelle quasi cancellate dalla formazione manageriale. Avevo trovato qualche traccia e, approfondendo, è stato sbalorditivo scoprire che il management è percorso fin dall’inizio, da metà ‘800 fino a oggi, da un protagonismo di donne legate da un’incredibile vicinanza di principi. Ha così preso forma una genealogia, che sono felice di aver portato alla luce».

Lei afferma e testimonia che siano state alcune donne a fondare l’idea stessa di management e del ruolo di manager come figura sociale, come?
«Due esempi. Il primo è Beatrice Webb, tra l’altro fondatrice della London School of Economics, che alla fine del 1800 introduce il concetto di democrazia industriale. Afferma che “la partecipazione dei lavoratori al governo delle aziende può stare insieme a una gestione aziendale efficiente: un management democratico”. Il secondo è Mary Parker Follett, studiosa e consulente internazionale, che negli anni Venti del secolo scorso parla delle forme di potere: il potere-su, il dominio, che impedisce lo sviluppo dei lavoratori e quindi dell’azienda, e il poterecon, condiviso con chi lavora, creando una leadership diffusa».

Nel libro dice che proprio una donna, docente di organizzazione del lavoro, ha rivoluzionato le basi teoriche accademiche dell’organizzazione d’azienda. Di cosa si tratta?
«Joan Woodward negli anni Sessanta rifiuta di insegnare teorie non verificate nella realtà e comincia quindi a usare la ricerca empirica per scoprire il modello organizzativo, fondato sulle tecnologie e sulla cultura, che distingue un’azienda da tutte le altre. I risultati (nel suo libro Organizzazione industriale. Teoria e pratica) smentiscono l’idea accademica che esista un solo modello organizzativo ottimale e universale: il modello più efficace va cercato guardando alla realtà contingente dell’azienda. Per questo suo approccio rivoluzionario, Woodward fu emarginata».  

Ci faccia un esempio internazionale e uno italiano di donne manager di questa forgia.
«Uno solo, italiano, impostosi internazionalmente: Marisa Bellisario, all’inizio degli anni Ottanta ha portato un profondo cambiamento culturale nel management. Ricordiamo il salvataggio “miracoloso” dell’Italtel (30.000 dipendenti) dal fallimento. Si è accordata con i sindacati, ha offerto una via di uscita al personale in esubero senza licenziamenti e ha cambiato prodotti obsoleti. Non ultimo, ha fatto politiche d’avanguardia per le donne. Soprattutto, ha combattuto sempre contro il potere politico, senza sottomettersi a “ordini” di cui non fosse convinta. Dopo la morte è stata trasformata in un monumento, ovvero il modello perfetto inarrivabile ad altre donne, la “splendida eccezione”. Invece, va ricordata come persona con le sue difficoltà e i suoi successi. È una figura di cui ci dobbiamo riappropriare».

Qual è il filo conduttore di quest’anima del management a trazione femminile che si contrappone alla mera attenzione agli andamenti finanziari?
«È il rifiuto del potere come dominio, comando e controllo. Perché tutte hanno provato la sofferenza di vivere sotto un potere patriarcale che non consente la libertà delle donne. Per questo, più degli uomini, esercitano la loro autorità nell’interesse di tutta la comunità aziendale: l’azienda è il luogo in cui convergono soggetti con interessi diversi, e di tutti bisogna tenere conto perché tutti contribuiscono a crearne il valore. Il ruolo del management è mantenere questo equilibrio. Tanto più oggi, perché il management è spinto dalla situazione a occuparsi prevalentemente del profitto degli azionisti, sottovalutando gli interessi di chi lavora, fino a intendere il lavoro solo come un costo da comprimere».

Nelle donne individua anche un vulnus, la difficoltà a credere in se stesse. Da cosa deriva questa convinzione e quali le cause?
«Deriva da una secolare cultura sociale che sminuisce le donne fin da bambine, le educa a non avere ambizione (negativa per le donne). Così le donne introiettano l’idea di essere inadatte ad agire nel pubblico: lavoro e potere. Questa misoginia permane nella cultura aziendale, che non dà lo stesso valore al lavoro degli uomini e delle donne, ritenendo queste ultime incapaci di certi ruoli o tipi di lavoro. È la svalutazione delle donne che genera la discriminazione, soprattutto nei ruoli di vertice».

In un capitolo del suo libro titola un paragrafo “Manager non è una brutta parola”. Un assist per una figura e un ruolo troppo poco apprezzato e valorizzato nella società di oggi?
«L’immagine pubblica del manager è svalutata da brutti esempi sotto gli occhi di tutti. Ma il manager occupa un ruolo fondamentale nella società. Per questo va portata alla luce un’immagine diversa del manager. Le donne di cui parlo nel libro mostrano a tutti, uomini e donne, questa immagine».

Parla anche di un agire politico del management. Di cosa si tratta e non avrà connotazioni di genere?
«Essere manager non è solo essere bravi specialisti nell’ambito di propria competenza, ma contribuire a quella costruzione complessiva che è l’azienda, alla sua cultura e alle sue prassi. In questo senso è un agire politico: il manager che intende pienamente il proprio ruolo si propone di incidere sulla realtà in un ambito ampio, anche fuori dai confini dell’azienda, con una visione non solo tecnica. Questo vale per tutti, ma le donne più degli uomini lo mettono in pratica. Forse perché sentono di più la necessità di un cambiamento profondo nel lavoro e in generale nella società».

In alcuni passaggi del suo libro pare di capire che solo le donne possano essere manager con quella particolare anima che lei, anche giustamente, valorizza. Perché? Non rischiamo di cadere in una contro discriminazione?
«Le donne hanno portato nel management una visione diversa che viene dalla loro esperienza di vita. Ma questa visione è un invito a interpretare il ruolo con responsabilità e impegno rivolto a uomini e donne, è una proposta di trasformazione del mondo del lavoro per stare meglio tutti e tutte. Una trasformazione che non può esserci senza le donne e il loro pensiero, ma non può realizzarsi senza la partecipazione degli uomini. Già molti si trovano d’accordo nel non accettare un management autoritario. Agli incontri di presentazione di questo libro hanno partecipato tanti uomini. Erano coinvolti, alcuni anche commossi. Un bel cambiamento, che ha commosso anche me». 


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