Green claim e comunicazione sostenibile

Il controllo del vanto ecologico dei brand per una corretta informazione

È una conquista delle società moderne la consapevolezza che l’impresa deve operare in un’ottica di “sviluppo sostenibile”. Il tutto tradotto in un programma concreto che investa l’intera filiera produttiva. La necessità di comunicare questo ai consumatori, ovviamente, passa anche attraverso la comunicazione commerciale.

In ambito autodisciplinare IAP (Istituto autodisciplina pubblicitaria) si è da tempo posto la questione di come giudicare la pubblicità alla luce di questa esigenza di posizionamento, che può essere sia aziendale che di prodotto. Negli anni si è infittito l’elenco delle decisioni assunte dagli organi di controllo autodisciplinari. Il Giurì e il comitato di Controllo si sono sempre preoccupati di smascherare il cosiddetto “green washing”, ovvero quell’operazione volta ad ammantare la comunicazione commerciale di claim ecologici, che però non reggono (del tutto o nella misura vantata) a un vaglio di merito approfondito.

Nel 2014 abbiamo varato un nuovo articolo del nostro Codice di autodisciplina per rispondere all’esigenza del controllo delle comunicazioni commerciali che contengono rivendicazioni ambientali, i cosiddetti green claim, leva del marketing sempre più diffusa e in grado di incidere sulle scelte dei consumatori. Si tratta dell’articolo 12 – Tutela dell’ambiente naturale.

La norma trae ispirazione anche da diverse recenti pronunce del Giurì che hanno tracciato delle linee guida di comportamento sulla base dei principi generali del codice. I pregi ambientali di un prodotto possono essere decisivi per orientare la decisione di acquisto dei consumatori e certamente merita di essere riconosciuto e condiviso l’impegno delle imprese che abbiano realizzato concreti e significativi risultati per la tutela ambientale. Sulla base di tali presupposti, la nuova norma impone standard precisi di correttezza, affinché gli slogan “ecologici” non divengano frasi di uso comune, prive di concreto significato ai fini della caratterizzazione e della differenziazione dei prodotti.


Pertanto, i benefici di carattere ambientale vantati devono “basarsi su dati veritieri, pertinenti e scientificamente verificabili” e la comunicazione “deve consentire di comprendere chiaramente a quale aspetto del prodotto o dell’attività pubblicizzata i benefici vantati si riferiscono”. Non sono quindi ammissibili vanti generici. Il nuovo articolo è compreso nel Titolo I del codice, tra le “regole di comportamento”, quindi una norma di carattere generale riferibile a qualsiasi tipo di comunicazione commerciale.


Questo principio come è stato applicato dal Giurì?

Orientamento costante è il divieto di presentare come risultati assoluti (che d’altra parte sono forse per definizione irraggiungibili in questo campo) quelli che in realtà sono vantaggi o benefici raggiungibili solo in parte. Quindi, ad esempio, non è consentito vantare come “ecosostenibile al 100%”, o “a impatto zero”, prodotti che tali non possono essere.

Un esempio: la censura dell’espressione “completamente biodegradabili” usata per una linea di detersivi. Il concept della campagna voleva suggerire l’idea che i prodotti pubblicizzati fossero assolutamente compatibili con la piena protezione dell’ambiente. Un’affermazione così assoluta è tuttavia facilmente confutabile, in quanto allo stato attuale delle conoscenze scientifiche non è possibile realizzare prodotti detergenti che siano totalmente privi di impatto ambientale.

Affine a questo filone è quello che considera ingannevole il vanto di “ecologicità” qualora venga espresso senza considerare i “minus” da un punto di vista ambientalistico connessi al processo produttivo di quel prodotto. Un esempio che è passato al vaglio del Giurì è il claim “impatto zero”. L’azienda aveva usato questa espressione perché aveva partecipato a un sistema di compensazione delle emissioni di CO2 mediante la riforestazione di un’area di ampiezza tale da compensare le equivalenti emissioni di CO2. Il Giurì fu del parere tuttavia che l’espressione poteva essere dal pubblico interpretata in senso ampio attribuendola a tutte le emissioni connesse al ciclo produttivo del prodotto, confezione compresa, mentre la compensazione riguardava solo le emissioni di CO2.

È bene chiarire che tutte le iniziative volte a ridurre l’impatto ambientale trovano il massimo apprezzamento da parte dell’autodisciplina pubblicitaria. Ma è fondamentale che in comunicazione ne sia circoscritto in modo specifico l’ambito per non dare un’idea generalizzata, e non veritiera, della sua portata.

Infine, capitale importanza riveste la dimostrazione in dettaglio e con accuratezza scientifica dei claim ambientalistici, né più né meno di quanto richiesto per la comunicazione di un integratore alimentare o di un farmaco, che vantino effetti benefici sulla salute.

Insomma, la giurisprudenza autodisciplinare può essere una miniera di indicazioni sul come fare “green advertising” senza fare “green washing”, pur lasciando ampi margini alla creatività. L’autodisciplina, oltre a essere un utile riferimento per i cittadini su questo tema particolarmente sentito, lo è anche per le stesse aziende, dato che un’eventuale perdita di credibilità e reputazione a causa di “green claims” dichiarati ingannevoli nuoce anche a quelle aziende che “green” lo sono davvero.

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