In campo manageriale, la flessibilità è una qualità largamente sopravvalutata. Poiché i cambiamenti del contesto competitivo sembrano sempre più accelerati, la flessibilità manageriale potrebbe apparire la risposta più adeguata. Ma non lo è, perché ogni flessibilità implica il ripristino di una condizione di partenza ritenuta ideale. Quale sarebbe la “condizione ideale” cui il manager dovrebbe fare ritorno dopo la perturbazione? La flessibilità è buona per le fronde degli alberi, non per il cervello dei dirigenti. Quello che ci si aspetta da un capo assennato, in tempi turbolenti, è semmai la plasticità, che è tutt’altra cosa.
Il contrario di flessibilità è rigidità; il contrario di plasticità è robustezza. Il manager rigido è dedito al controllo ed è disposto a rinunciarvi solo in via eccezionale e solo per tornare ad assumerlo il più presto possibile. Questo manager-arbusto è adatto a un’organizzazione altrettanto rigida, immutabile e meccanica (non ce ne sono più molte). È la biologia a insegnarci il valore della plasticità nei sistemi viventi, che sono caratterizzati appunto da una robustezza genetica fondamentale (quello che in azienda chiamiamo “struttura organizzativa”) ma sono in grado di sopravvivere ai continui cambiamenti ambientali unicamente grazie alla plasticità, ovvero i comportamenti professionali.
Al manager delle organizzazioni innovative viene richiesto un pendolarismo pressoché quotidiano tra robustezza e plasticità. Quando esercita robustezza, il manager rispetta le procedure, impone l’osservanza delle policy, esercita un’autorità d’ispirazione gerarchica; il manager plastico, invece, presta molta attenzione alle eccezioni, cambia idea quando necessario, costruisce strategie inedite e più adatte al contesto. Se occorre gestire situazioni standardizzate (business as usual), il manager robusto si procura la fiducia dei collaboratori. Non appena gli eventi si costellano di incidenti ed emergenze, la fiducia accumulata serve a sperimentare, appunto con plasticità, soluzioni inedite.
Gli imprevisti sono diventati l’unico evento che possiamo predire con certezza. Per aumentare la capacità di adattamento esistono alcuni strumenti pratici di grande efficacia. Ecco tre esercizi di crescente difficoltà per incrementare la plasticità del manager.
Primo esercizio: osservare il letto dei fiumi. Avete mai visto un fiume perfettamente diritto? Soltanto i canali artificiali fendono il territorio con linee ortogonali. I fiumi sono sinuosi perché plasticamente accolgono gli eventi atmosferici e si fanno modificare da essi, facilitando il dialogo incessante tra ciotoli, rivoli e flutti, allo scopo di garantire la continuità dello scorrimento. Gli argini sono utili solo se contengono senza imprigionare, abilitano la trasformazione senza compromettere la struttura.
Secondo esercizio: riconoscere i creodi organizzativi. I creodi sono le pieghe naturali dell’organizzazione, canalizzazioni impercettibili ma decisive che condizionano i comportamenti e orientano le decisioni – il modo in cui si fanno le cose da queste parti. Qualsiasi strategia aziendale che cerchi di opporsi ai creodi è destinata al fallimento. Al contrario, il manager che riconosce i creodi che danno forma alla propria azienda e li asseconda dà forza all’azione di governo organizzativo e facilita il raggiungimento dei risultati attesi.
Terzo esercizio: sbarazzarsi dell’arroganza. Questo è l’esercizio più difficile, ma è quello decisivo. Nella robustezza manageriale si annida un’arroganza di fondo che non ha in sé nulla di male, sin tanto che tale rigore è posto al servizio degli obiettivi aziendali. Quando la strategia richiede il coinvolgimento crescente dei collaboratori e la messa a fuoco di risposte originali a difficoltà senza precedenti l’arroganza diviene ostacolo. Allora è opportuno prendere esempio dall’organismo umano che riesce ad adattarsi all’inevitabile variabilità del contesto solo quando si sforza di coniugare la robustezza del patrimonio genetico (inscritto dalla nascita nell’identità di ciascuno) con la capacità di adeguarsi plasticamente alle richieste ambientali tipica dell’evoluzione epigenetica, che forgia il carattere senza compromettere il Dna.
L’azienda guidata dal manager plastico è un’azienda zainocratica perché è dinamica, sensibile ai mutamenti, incline alle sperimentazioni, capace di fare tesoro dei passi falsi, non più intossicata dalla burocrazia. Questa azienda somiglia molto a un organismo vivente e, come quest’ultimo, si garantisce robustezza nelle relazioni interne grazie allo scambio incessante di feedback. Che è come dire: grazie all’ascolto del punto di vista altrui il manager plastico ottiene una leadership meno burocratica, più robusta ed efficace di qualsiasi rigidità.
Riferimenti
I concetti di creode ed epigenetica si devono al biologo ed epistemologo Conrad Hal Weddington.