“Non ha senso, da un punto di vista economico, invertire i ruoli” così dichiara in un’intervista apparsa sul Sunday Times del 31 maggio Kate Tynan, micro-imprenditrice inglese. I ruoli a cui si riferisce sono quelli lavorativi e familiari suo e del marito. La sua piccola impresa, che produce torte da matrimonio enormi, multi-strato e decoratissime, è stata colpita duramente dal lockdown, ma quello che la sembra preoccupare di più è che, se i bambini non torneranno a scuola a causa di restrizioni sanitarie, lei non riuscirà a continuare a lavorare, meno che meno a pensare a una strategia per contrastare la crisi. D’altra parte, lei stessa constata, con mesta rassegnazione e lucido pragmatismo, che è meglio che sia lei a fare un passo indietro per la famiglia perché guadagna di meno.
Questa storia risuonerà con molte donne, non solo imprenditrici e libere professioniste, ma anche manager. Il differenziale retributivo di genere, nel nostro Paese come in quasi tutto il mondo, continua, insieme a fattori culturali legati agli stereotipi, a condizionare la ripartizione dei compiti domestici e familiari, che ricadono in gran parte e “per default” sulle donne (tanto è che ancora oggi un uomo che fa qualcosa in casa e per i figli è bravo “perché aiuta”, come se si facesse carico di qualcosa che non gli appartiene, per puro altruismo e spirito di servizio).
L’influenza dei carichi ineguali condiziona pesantemente le possibilità di carriera delle donne. Ciò avviene anzitutto in modo diretto: se bisogna correre a prendere i figli a scuola e occuparsi di tutte le incombenze della famiglia si disperde un mare di energia. Il problema non è solo il non poter mai partecipare alla riunione convocata alle 18, per quanto questo diventi, in contesti in cui nei fatti il presenzialismo conta, un fattore limitativo della carriera. Quello che è quasi peggio è che vengono meno gli spazi mentali per dedicarsi a innovare, a rendersi visibili e a strategizzare sulla propria carriera, problema che, nella mia veste di coach, posso dire riguarda moltissime donne.
Ma la fatica dei tripli carichi (lavoro, famiglia, casa) che le donne si sobbarcano è solo un pezzo della spiegazione: in modo indiretto e subdolo le donne sono “marchiate” in quanto appartenenti al genere femminile con alcune attribuzioni, per esempio che la vita extra-lavorativa sia prioritaria e che, di conseguenza, siano meno affidabili e “scommesse più rischiose” per l’organizzazione. Quello che è ulteriormente più ingiusto è che ciò prescinde dalle reali intenzioni e anche azioni delle donne. In altre parole, l’inferenza parte incontrollata e automatica: se ha famiglia, la donna non gradirà viaggiare, non potrà trattenersi in ufficio fino a tardi e di fronte a una richiesta di cura proveniente dalla sua famiglia pianterà in asso l’organizzazione. Grazie a questa semplificazione basata su pregiudizi, anche le donne senza figli fanno meno carriera degli uomini e ben oltre l’età presunta fertile (ci sono sempre genitori e forse suoceri che potrebbero avere bisogno).
Il lockdown è stato, inizialmente e almeno in parte, un equalizzatore. Forzando tutti a casa e rendendo impossibile avvalersi di aiuti domestici, ha generato una piccola ridistribuzione dei compiti. Ho partecipato a riunioni virtuali in cui gli uomini si presentavano con i figli in braccio e ho vari amici di genere maschile, che pre-Covid si recavano in cucina solo per prendere qualcosa dal frigorifero, improvvisatisi pizzaioli, panettieri e cuochi nelle lunghe giornate della clausura. I più avventurosi di loro, preclusi gli sport e le palestre, hanno addirittura iniziato a passare energicamente l’aspirapolvere (procurandosi il mal di schiena), mentre i rappresentanti del genere maschile più sprezzante del pericolo si sono perfino dedicati allo stiro (alcuni riportando ustioni, ma non gravi). Inoltre, dato che in ufficio non si poteva andare, donne e uomini sono stati messi in condizione paritetica: tutti a lavorare da casa. Alla riunione delle 18 o delle 830 hanno iniziato ad essere presenti le madri e nelle menti dei responsabili più acuti si sarà fatto strada il pensiero fugace che forse la precedente non partecipazione non fosse dovuta a cattiva volontà o disinteresse.
Ma adesso che il momento dell’emergenza più grave è finito, le donne rischiano di fare la fine dei vasi di coccio tra i vasi di ferro perché hanno spesso formule di lavoro precarie (es. contratti a tempo determinato) o più fragili contrattualmente (come il part-time, forma che riguarda il 30% delle donne lavoratrici secondo i dati Eurostat del 2018 contro l’8% degli uomini).
Come ricordato da Floriana Cerniglia, Lella Golfo, Paola Mascaro, Paola Profeta nell’articolo apparso il 31 maggio sul Corriere della Sera (Donne e lavoro, i nodi da sciogliere), il rapporto tra maternità e lavoro e i disequilibri di carichi all’interno della famiglia, le difficoltà dell’imprenditoria femminile e una leadership dominata dal genere maschile danneggiano il Paese ora più che mai dato che abbiamo bisogno che tutti contribuiscano al rilancio del Paese. Inoltre, la bassa partecipazione al lavoro e la bassa fecondità (entrambe dannose per l’economia del Paese) vanno a braccetto, così come è vero il contrario: in tutto il mondo una maggiore partecipazione al mondo del lavoro si accompagna a un maggior numero di figli (cosa che si comprende bene pensando che si tende a diventare genitori quando ci si sente economicamente sicuri, cosa che due stipendi garantiscono più di uno) . Sempre dal Corriere della Sera, il 28 maggio era giunto un appello simile firmato da Barbara Stefanelli e Maurizio Ferrera (Perché senza donne non c’è ripresa). Le voci sono insistenti e ampiamente supportate da dati ufficiali e analisi accreditate, ma purtroppo sono sempre le stesse.
È venuto il momento di coinvolgere nel dibattito anche chi ne è rimasto fuori finora e di agire, ma serve un catalizzatore. Io credo che in questo le organizzazioni possano avere un ruolo pivotale e di esempio e che usare il proprio peso e la propria influenza per far prendere una direzione più moderna al Paese rientri, vista la situazione italiana, nella responsabilità sociale d’impresa. Questo vuol dire per esempio assicurarsi che le lavoratrici-madri non siano penalizzate, favorire i rientri al lavoro dalla maternità o dopo periodi di assenza anche lunghi e adottare una certificazione di parità che permetta di avviare percorsi di miglioramento e monitorare progressi. Infine, credo sia scaduto il tempo in cui l’inclusione possa restare presidio esclusivo delle Risorse Umane e dei Responsabili di Diversità e Inclusione. L’inclusione (che ovviamente non riguarda solo il genere, anche se in Italia è la dimensione più rilevante numericamente) deve diventare una priorità strategica e un valore cardine dell’organizzazione. Le organizzazioni più attente a intercettare i trend futuri, d’altra parte, hanno già capito che i Millennials la pongono tra i must-have e che si tratta di un gruppo demografico che non transige.
È stato detto che siamo a un bivio e dobbiamo scegliere da quale parte andare. Purtroppo, credo che siamo su una strada, quella che tiene la partecipazione delle donne tra 15-64 anni alla forza lavoro inchiodata al 49,5% (la media per gli uomini è 67,5%) e l’indice di fecondità all’1,32 (il più basso d’Europa insieme alla Spagna), che procede diritta. Ma c’è una via laterale che, se svoltiamo velocemente, siamo ancora in tempo a prendere. Togliamo il pilota automatico, prendiamo con coraggio il volante e diamo una bella sterzata.