IA: Platone aveva ragione

Creativa, ma non per forza intelligente: il nostro approccio nei confronti dell’intelligenza artificiale dovrebbe cambiare, superando paure infondate e puntando i riflettori sui veri nodi da sciogliere. Ci stiamo raccontando delle storie poco probabili? Ne parliamo e chiariamo alcuni concetti imprescindibili con Luciano Floridi, autorevole voce nel campo filosofico che da anni approfondisce il legame stretto tra informazione, tecnologia ed etica.
intelligenza artificiale e filosofia

Come possiamo definire l’intelligenza artificiale e come dobbiamo porci verso di essa?

«L’intelligenza artificiale fa riferimento a un campo scientifico e tecnologico molto articolato, si va dalla robotica a ChatGPT, che nel complesso mira a creare sistemi computazionali in grado di risolvere problemi e svolgere compiti o mansioni che, se lasciati a noi, richiederebbero intelligenza. La cosa straordinaria è che l’IA non ne ha bisogno, ma ha successo operando a intelligenza zero. Questo è reso possibile da molte cose, ma soprattutto da immense quantità di dati, da strumenti statistici e algoritmici sempre più sofisticati e dall’adattamento del mondo, sempre più digitale. Dobbiamo usare questa nuova forma di capacità di agire a intelligenza zero come una riserva di opportunità, ma con cautela e responsabilità, riconoscendone i grandi benefici potenziali, ma anche i possibili rischi e i disastri che potrebbe causare se disegnata e gestita male».

Tra le tante sciocchezze che ha sentito sull’intelligenza artificiale, quali sono quelle che non può proprio accettare?

«Che sia o possa diventare intelligente anche solo come un gatto che capisca o possa un giorno capire, che abbia una coscienza, e quindi che possa sostituire completamente gli esseri umani. In realtà, l’IA è solo una tecnologia disegnata e gestita dall’umanità, che resta e resterà sempre la sola responsabile».

Insomma, secondo lei quale dovrebbe essere l’approccio giusto per cogliere il meglio di questa straordinaria invenzione/rivoluzione?

«Smetterla di dire, diffondere e vendere sciocchezze e sfruttarne il potenziale per creare ricchezza, migliorare la vita umana e sostenere l’ambiente. L’IA potrebbe essere parte della soluzione, invece che dei problemi che abbiamo, come oggi avviene spesso, con un impatto negativo sulla società (ingiustizia, bias, privacy ecc.) e sull’ambiente (insostenibilità)».

Si tratta forse, come diceva Platone nel Fedro rispetto ai libri, che con l’IA non dobbiamo smettere di farci domande prendendo per buone le sue risposte, ma che ancor più dobbiamo porci e porre all’IA le domande giuste?

«Se parliamo di IA come nel caso di un bot, allora sta a noi decidere e formulare quali domande porre, quando e in che ordine di priorità; saper capire e controllare le risposte che riceviamo, magari correggendole e, infine, decidere che cosa fare con esse. L’IA richiede più intelligenza umana, non meno. Platone aveva ragione: come dice nel Cratilo, la persona che sa è quella che anzitutto sa porre le domande giuste».

Parliamo di IA e lavoro: l’IA, se ben utilizzata, potrebbe davvero togliere all’uomo compiti routinari e poco intelligenti e potenziare il lavoro di intelletto e qualità? E come?

«L’IA può automatizzare compiti ripetitivi e potenziare il lavoro umano, liberando le persone da attività meccaniche per concentrarsi su attività di pensiero, problem solving e creatività. Sul come, sarebbe troppo lungo rispondere, ma spero che basti un suggerimento: andare a controllare se il compito in questione richiede necessariamente intelligenza umana per essere svolto o può essere ristrutturato a misura di sistemi a intelligenza zero. Penso al taglio dell’erba in giardino: se ridisegno il giardino, un robot può fare benissimo il mio lavoro, anche se richiede molto più tempo. Molte delle applicazioni di IA devono essere integrate nel flusso operativo e per fare questo ci vuole molta intelligenza umana, per assicurarsi che sistemi potenti ed efficaci ma a zero intelligenza svolgano il lavoro richiesto. Basta vedere come è disegnato una grande magazzino automatizzato. È uno spazio a misura di IA, non per esseri umani».

Parliamo di manager e IA: che ruolo hanno per non farla percepire come un Frankenstein in azienda? Come devono utilizzarla e metterla in sinergia con le persone e il loro lavoro?

«I manager devono utilizzare l’IA in modo strategico, integrandola con le capacità umane e valorizzando il lavoro delle persone, in modo da creare miglioramenti in termini sia di efficacia ed efficienza, sia di esperienza e soddisfazione nei confronti del lavoro svolto. Suggerirei, per fare questo, due punti semplici ma essenziali: introdurre l’IA per fare cose che le persone non vogliono ma devono fare e per fare cose che le persone vorrebbero ma non possono ancora fare. L’obiettivo deve essere quello di creare sinergie tra l’operatività artificiale e l’intelligenza umana. Per farlo, i manager hanno bisogno di un’ottima conoscenza dell’ecologia lavorativa in cui operano, di competenze aggiornate e di una visione strategica».

L’IA potrà fare filosofia un giorno, porre domande di senso e rispondere ai grandi interrogativi dell’umanità?

«Le rispondo con quella che sembra ma non è una tautologia: se parliamo sul serio, allora non scherziamo».

Il 25 settembre parteciperà a “Orbits. Dialogues with intelligence” con un intervento sulla via per l’intelligenza artificiale “human oriented”: l’intelligenza e la creatività umane sono ancora la nostra più straordinaria risorsa esclusiva?

«Non credo. Oggi si possono fare sempre più cose senza alcuna intelligenza, e farle meglio, dal giocare a scacchi al parcheggiare un’auto, dallo scrivere linee di codice al creare un breve video commerciale. Anche la creatività resta una sorta di ultima trincea solo perché vaga abbastanza. Dipende da che cosa s’intende. Di fatto, le nuove forme di IA sono piuttosto creative e potranno esserlo sempre di più. In realtà, è l’approccio sbagliato. Stiamo ancora cercando un’eccezionalità che si basa su un di più, quando dovremmo guardare a un di meno. La natura umana è speciale perché vive e sente l’assenza: quello che ci manca, che vorremmo essere o ottenere, la società in cui ci piacerebbe vivere, i progetti e le paure per quello che non è ma potrebbe essere, il significato che vorremmo dare o scoprire per la nostra vita. Forse è questo che s’intende per “creatività”, ma allora si confonde la conseguenza con la causa, che è un’altra. Per individuarla, l’inglese ha una parola molto utile intraducibile in altre lingue: want. Significa non solo “volere” o “avere voglia di”, ma al contempo anche “mancare di”. Se manca il sale nella pasta, si dice che the pasta wants salt, ovviamente la pasta non vuole niente. Quando dico I want an ice cream sto dicendo due cose al contempo: che lo voglio e che mi manca. Vogliamo e desideriamo ciò che ci manca e ci manca quello che vogliamo e desideriamo, abbiamo cioè degli interessi, intesi come “wants”. La creatività e l’intelligenza sono solo due dei tanti modi (si pensi anche al giocare) di cercare di sentire meno questa assenza, o riempirla. Ma è l’assenza che ci rende unici. Siamo gli esseri ai quali manca sempre qualcosa. Siamo intrinsecamente inappagabili. O “irricucibili”, come strappi nella trama dell’essere».

Luciano Floridi interverrà a Orbits. Dialogues with intelligence, il 25 settembre a Milano.

Per le aziende e i manager associati a Manageritalia sono previste condizioni di particolare favore per partecipare all’evento.

Per maggiori informazioni, contattare Andrea Ferretti: info@orbits.day, tel +39 349 36 08 166.

luciano floridi
Luciano Floridi, professor of Cognitive science and founding director of the Digital ethics center Yale University & professor of Sociology of culture and communication processes, University of Bologna.

 

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