Sembra a volte un’ossessione: le persone di un determinato ambiente di lavoro devono incarnare i valori di quella organizzazione. Ma in questo modo, come chiarisce Richard Chapman di Harris, spesso si escludono profili anche molto qualificati perché giudicati distanti dalla propria cultura aziendale.
Spesso si sente dire “È interessante, ma non sono sicuro che vada bene per quel team”, oppure “Ha le competenze richieste per quel ruolo, ma non credo sia il nostro genere di persona”. Se si parte con questa attitudine nei confronti di nuovi candidati o persone già assunte si apre la porta ai pregiudizi. Quello che succede è che potenziali collaboratori vengono valutati sulla base di criteri soggettivi e inconsistenti che possono non essere collegati in alcun modo alla job description.
Se ci pensiamo, spiega Chapman, è la stessa attitudine di chi definisce una persona sulla base delle caratteristiche sociali anziché sulle sue capacità.
L’idea che esista un certo tipo di persona che vada bene perfettamente per l’organizzazione è limitante e potenzialmente esclusoria.
Le culture aziendali sono basate su certi valori, nessuno vuole negarlo, ma quando le caratteristiche della persona sono confuse con le competenze abbiamo un problema legato all’inclusione e alla valorizzazione dei talenti.
Ogni organizzazione che ponga dei paletti sul modello di risorse umane avrà problemi nella fase di recruiting: i candidati si autoescluderanno se percepiscono di non essere in linea con lo stampo inflessibile e stretto di quella azienda.