La mia Europa: ricerca scientifica

Raccontiamoci l’Europa che abbiamo vissuto e stiamo vivendo. Anche per dare seguito all’iniziativa di Cida I Manager per l’Europa, abbiamo raccolto l’esperienza professionale e sociale di alcuni manager in Europa. Oggi ospitiamo il punto di vista di Pierpaolo Campostrini, associato Manageritalia, Managing director Corila, rappresentante italiano in JPI Oceans e nel Comitato di Programma di Horizon 2020, Societal Challange n. 2

Se tutta la ricerca scientifica, mirando all’allargamento delle conoscenze, ha un carattere intrinseco di universalità, alcune ricerche più di altre hanno avuto, dal secondo dopoguerra in poi, una specifica dimensione europea.

Avendo iniziato la mia carriera scientifica nel campo della Fusione Nucleare, già nel 1985 per me questa dimensione era familiare. Ogni ricerca nucleare, infatti, deve essere autorizzata a livello europeo dall’Euratom, un’organizzazione internazionale istituita, contemporaneamente alla Cee, con i trattati di Roma del 25 marzo 1957 allo scopo di coordinare i programmi di ricerca degli stati membri relativi all’energia nucleare e assicurare un uso pacifico della stessa. Oltre ai temi della sicurezza, l’integrazione europea ha anche motivazioni pratiche di necessità: le risorse da dedicare a certe ricerche sono così ingenti che uno stato da solo non sarebbe in grado di provvedervi.

Nel 1985 le compagnie aeree low-cost non esistevano, e i viaggi aerei erano costosi: un biglietto a/r in Europa era l’equivalente del mio (magro) stipendio dell’epoca: ma noi lavoratori della cosiddetta “Big Science” eravamo tra i pochi scienziati ad avere a disposizione il budget necessario a viaggiare spesso. Ho visitato non solo i laboratori ma anche le industrie manifatturiere di mezza Europa che producevano i componenti del grande esperimento RFX, realizzato a Padova.

I paesi europei oggi più che mai sostengono una competizione globale con entità statali molto grandi (Usa, Cina, Russia) e nessuno è in grado di farcela da solo, specie se consideriamo la necessità di mantenere “allo stato dell’arte” le nostre competenze: l’innovazione deve potersi basare su nuove conoscenze, per produrre risultati duraturi. Nel marzo del 2000, a Lisbona, il Consiglio europeo adottò l’obiettivo strategico di “diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale”.

Per avere un’economia basata sulla conoscenza la ricerca scientifica è essenziale e ci sono molti campi nei quali è richiesta una reale integrazione di risorse per progredire: le sovrapposizioni disordinate sono veramente degli sprechi di denaro pubblico, che nessuno può permettersi.

Quando nel 2000 ho cambiato settore di applicazione delle mie competenze, il quadro era quindi assai mutato, non solo per la deregulation delle tariffe aeree. Ben presto compresi che la mia esperienza di ricercatore abituato al confronto europeo, poteva essere utile al mio nuovo ruolo manageriale, dedicato alle ricerche ambientali. Cominciammo i primi progetti europei, in un quadro assai competitivo, con percentuali di successo significative. Se ne accorse anche il Ministero della Ricerca che mi chiese (su base quasi-volontaria) di rappresentare il Paese in diversi tavoli di coordinamento della ricerca europea.


Infatti non bisogna dimenticare mai che le istituzioni che regolano l’Unione europea sono tutte stabilite da un comune volere degli stati membri dell’Unione e in buona misura controllate da essi. L’Unione Europea è quella che vogliamo e che contribuiamo a costruire NOI, ovviamente nel dialogo e talvolta nel confronto con gli altri rappresentanti degli altri stati.

Comunque confesso che dopo tanti anni c’è sempre un briciolo di emozione nel prendere posto a Bruxelles in un tavolone dove nel segnaposto sotto il tuo nome c’è quello del tuo Paese, l’Italia. Certo, c’è la consapevolezza di quello che siamo come Paese, spesso nel bene (competenze e capacità) e meno volte nel male (disorganizzazione e contraddizioni).


In questi anni ho imparato come la regola che vige sui tavoli europei, in generale e soprattutto nella ricerca scientifica e tecnologica, assomiglia alla massima evangelica per cui “viene dato a chi ha già, e viene tolto a chi non ha”. Ovvero, alla dimensione europea bisogna crederci, esprimere il meglio di se stessi, portare competenze a un confronto attento e rigoroso. In una parola, bisogna essere preparati: le chiacchiere contano zero. Ma quando l’Italia gioca seriamente come squadra, quando noi Italiani riusciamo ad andare sui tavoli europei non in ordine sparso, ma coesi… beh, siamo ascoltati e se c’è da competere, siamo tra i primi in ogni settore.

Desidero portare due esempi di situazioni in cui sono stato attore e testimone. La prima era nel 2014, alla partenza del programma per la ricerca e l’innovazione dell’Unione, denominato Horizon 2020. I paesi del Centro e Nord Europa erano riusciti nella fase di cambio legislatura (simile all’attuale) a indirizzare tutte le ricerche marine verso temi di interesse Atlantico, lasciando sguarnito il Mediterraneo. Per ottenere questo risultato, gli accordi politici informali erano stati di alto livello e avevano cortocircuitato con espedienti ben preparati gli strumenti di controllo in cui sono rappresentati tutti i 28 paesi, nei quali sedevo anch’io. In pratica, la Commissione europea si diceva “costretta” da ritardi procedurali a indirizzare le ricerche secondo gli accordi politici generali, presi in una riunione ministeriale di fine mandato, abbastanza generica, nella quale evidentemente i paesi mediterranei erano stati colti da un colpo di sonno. Ora però si parlava di un centinaio di milioni di euro, mica bruscolini. Beh, il mio intervento in sede di Comitato di Programma (normalmente un luogo in cui si usano toni assai misurati) è stato durissimo ed ha lasciato dietro di sé un freddo glaciale. Sono poi andato a protestare con il Commissario Europeo agli Affari Marittimi e alla pesca, che era una combattiva signora greca, la quale mi diede ascolto. Dopo pochi giorni mi telefona il Capo Unità della competente sezione della Direzione generale della Ricerca, che cominciò così: “Sa, anche il nostro Commissario è interessato al Mediterraneo”. Iniziò con quella telefonata un percorso, lungo diversi mesi e moltissime riunioni, che coinvolse tutti gli stati membri dell’Unione che si affacciano sul Mediterraneo e poi tutti gli altri: esso definì un’iniziativa (Bluemed) e un’agenda Strategica per la Ricerca e l’innovazione nel Mediterraneo, che ha prodotto attenzione e finanziamenti alle ricerche specificatamente mediterranee per diverse decine di milioni di euro di finanziamenti europei. Di questo sono ora contenti non solo (ovviamente) i paesi mediterranei, ma anche tutti gli altri, e ora l’iniziativa si apre anche agli altri paesi non-europei, medio-orientali e africani. Il Mediterraneo connette i popoli e non li separa.

La seconda è più personale. In Romania, a Bucarest sono stato la prima volta dopo la caduta di Ceausescu, nel giugno 1990. Ero in esplorazione per un’organizzazione di volontariato e il mio viaggio era sostenuto dalla Caritas italiana. Pochi giorni prima il nuovo governo aveva represso nel sangue (ufficialmente 6 morti e 746 feriti) le manifestazioni studentesche, con l’impiego di 10.000 minatori trasportati a Bucarest con treni speciali dalla Valle del Jiu. Trovai allora una città grigia e spettrale, in cui i pochi passanti avevano lo sguardo chino, per le strade non c’erano macchine e nei pochissimi locali aperti la gente parlava poco e sottovoce. In quella occasione visitai i bambini provenienti dai terribili orfanotrofi per handicappati, raccolti in un campo da calcio dalle suore di Madre Teresa di Calcutta, le uniche forse che potevano ridare speranza a tanto orrore. Ci sono tornato molte volte in questi anni, l’ultima qualche giorno fa: in questo periodo la Romania, per la prima volta, ha la Presidenza del Consiglio d’Europa. Il motivo della mia visita, come da qualche anno, è lo svolgimento di un progetto europeo, il cui leader è un collega romeno, con il quale sono diventato amico. Bucarest è oggi una città-capitale come tante altre, un po’ caotica e rumorosa. La sera, giovani di varie età e di diversi paesi mescolano le loro lingue con allegria nei diversi locali del centro. Il mio amico apre la riunione e attorno al tavolo siamo oltre quindici paesi, a parlare di una infrastruttura di ricerca europea. Ho pensato per un attimo ai bambini incontrati quasi trent’anni fa e al fatto che se l’Europa avesse significato anche solo questo, beh, magari sarebbe già abbastanza.

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