Algoritmi e manager: la sfida è aperta

Stiamo diventando dipendenti dai sistemi di intelligenza artificiale? E con quali rischi? Come recuperare il contributo umano? Ne parliamo con Francesco Donato Perillo, autore di Algocrazia
algoritmi intelligenza artificiale

È oggi una priorità: i manager devono gestire la potenza degli algoritmi, onnipresenti e pervasivi, integrandoli con ciò che ci rende, profondamente, umani, a partire dai nostri valori. Occorre insomma una riflessione seria per ridefinire il ruolo chiave del management e le prospettive per un modello di leadership che sappia amalgamare le intelligenze artificiali con quelle umane. Sul numero di maggio di Dirigente, la rivista di Manageritalia, abbiamo affrontato le varie facce dell’IA, dando la voce a chi, in azienda, ci ha a che fare direttamente. Esploriamo ora il concetto di “Androritmo”, ovvero come i manager possano mantenere l’equilibrio tra efficienza tecnologica e sensibilità umana. Lo chiediamo a Francesco Donato Perillo, in libreria con Algocrazia (Guerini Next).

Il suo ultimo libro s’intitola Algocrazia, perché e cosa vuol dire?

«Algocrazia sta a indicare il potere degli algoritmi che si impossessa del mondo, generando la dipendenza degli umani dai sistemi intelligenti. Già oggi possiamo accorgerci della nostra dipendenza da internet e dai motori di ricerca, al punto da chiederci: come facevamo prima di Google? Lo smartphone che ha cambiato le nostre abitudini è solo un piccolo primo passo verso il possibile dominio dei sistemi calcolanti su noi “calcolati” (nel senso che siamo noi con le nostre interazioni ad alimentare la banca dati dei sistemi “intelligenti”)».

Nel sottotitolo c’è la domanda “l’intelligenza artificiale è la fine del management?”, ma il libro lo nega chiaramente, perché?

«La fine del management avviene quando affidiamo la responsabilità decisionale (e non solo la capacità diagnostica) alle macchine, delegando loro il comando e controllo. Il controllo è già di fatto molto esteso nelle organizzazioni 4.0, ma il comando, il potere direttivo, deve restare saldamente nelle mani dei manager. C’è il rischio che l’algoritmo diventi l’alibi del manager che non vuole esporsi e mettere la faccia sulle decisioni. Ci sono decisioni non delegabili sia per ragioni etiche che per ragioni professionali: cambiare business, delocalizzare una produzione, chiudere uno stabilimento, assumere un umano o investire in un co-bot? C’è uno spazio che qualifica l’esistenza stessa del manager: quello della responsabilità».

Lei infatti dice chiaramente che l’uomo deve usare la tecnologia e non farsi usare. Un lavoro da manager?

«Sì, usare la tecnologia senza lasciarsi dominare è un lavoro da manager. Avendo lavorato per una vita in aziende di alta tecnologia (gruppo Leonardo) ho ben compreso due cose semplici: quanto la tecnologia sia fattore decisivo di competitività dell’impresa e come tale non può fermarsi o limitarsi ma richiede di stare al passo col futuro; e quanto il fattore umano sia essenziale per la condivisione delle conoscenze e delle esperienze, per l’intuizione e per la spinta innovativa: doti che la macchina calcolante, benché “generativa” non ha. Bisogna adottare una “managerialità 5.0” quale capacità di assicurare l’equilibrio ottimale tra tecnologia e risorsa umana. Che poi significa conoscere la logica e le potenzialità sia delle macchine che delle persone. Siamo ancora molto indietro su questa sfida».

Appassionante come lei intraveda la salvezza dell’uomo e del senso del lavoro nell’organizzazione aziendale e nella capacità dei manager, hr e non, di gestirla al meglio. Perché?

«Perché sono convinto che esiste uno spazio intangibile, non intaccabile dall’algocrazia. È lo spazio che, riprendendo un neologismo coniato da Gerd Leonhard, chiamiamo “Androritmo”: la misura di tutto ciò che è umano, dunque emozioni, intelligenza, vissuti, bios. La capacità di coniugare Algoritmo e Androritmo è nelle mani e nella sensibilità del Manager 5.0. Deve farlo pena la perdita di senso del lavoro, con il conseguente appiattimento dell’azienda nella pura standardizzazione dei processi. Deprivati della motivazione (che è direttamente legata al senso di scopo del lavoro), gli umani non sono più in grado né di apprendere (col conseguente “deskilling”), né di innovare. Ecco perché io sostengo che questo tipo di approccio “umanistico” serve tanto all’impresa quanto all’individuo. È qui che l’azienda si gioca la sua identità, cioè l’anima».

Che organizzazione e che senso del lavoro servono per vincere?

«Per apprendere, crescere e avere il passo del futuro serve un investimento in identità, non solo in tecnologia. Se è vero che l’innovazione è l’unico effettivo business in un mondo che cambia velocemente, l’azienda deve restare un organismo vivente e rifiutare di diventare una macchina. Questo comporta da una parte un investimento in un tipo di formazione che riesca a coinvolgere in profondità le persone, potenziandone l’autoefficacia e la spinta a uscire dalla zona di confort delle proprie abitudini e schemi mentali; dall’altro un’organizzazione del lavoro che non assimili la persona alla macchina, omologandola al suo linguaggio e alla sua logica, ma che favorisca lo sviluppo di un potente network tra umani, tra umani e macchine e tra interno ed esterno dell’azienda nell’interazione col suo ecosistema. Non ho formule né ricette, l’organizzazione non è un format utilizzabile in ogni condizione. L’organizzazione è un verbo, non un sostantivo: dunque è “organizzare”, e qui si esprime la leadership dei manager 5.0».

E che manager servono?

«Servono manager in grado di lasciare il bozzolo del mindset del Novecento (gerarchia, procedure, comando, controllo, gestione delle risorse, cultura della colpa). Joi Ito, direttore del lab multimediale del MIT, dice che non bisogna più fornire mappe (istruzioni) ai collaboratori, ma bussole per muoversi nell’incertezza e nella complessità. È una metafora che mi piace molto perché richiama l’arte dei marinai che nella navigazione burrascosa sanno come mantenere la direzione anche in assenza di ordini e di procedure. Il manager che lascia il bozzolo per “diventare farfalla” sa far crescere (prima ancora che far fare), iniettando fiducia e senso di scopo nell’organizzazione».

Insomma, da dove partiamo?

«Da Olivetti, che troppo spesso abbiamo accantonato. Immaginerei un Adriano 5.0 che ricorda alle nuove generazioni di manager che l’impresa è sempre un progetto in divenire e che il progetto è per l’uomo, il progetto è l’uomo. Anche e soprattutto nell’era del post umano che lo vede co-evolvere con le macchine».

Francesco Donato Perillo

algocrazia

 

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