Lavoro e carriera: chi crede ancora al lungo periodo?

Chi vuol essere Manager sia, del domani non v'è certezza. Ovvero chi crede ancora al lungo periodo?

Si narra che Piero Villaggio, fratello dello straordinario attore e professore di Scienza delle Costruzioni alla Normale di Pisa, abbia chiesto a uno studente che non aveva risposto a nessuna domanda: “Mi disegni una retta sulla lavagna”. Lo studente cominciò a tracciare una linea sulla prima lavagna fermandosi al bordo, ma il Professore incalzò “Continui e non si fermi!”. Le lavagne erano quattro, e lo studente obiettò: “Ma le lavagne sono finite!”. E lui, implacabile: “Continui e continui così lungo il muro fino alla porta e poi fino a casa, riprenda a studiare e torni preparato al prossimo appello!”.
La retta è infatti un ente geometrico fondamentale della Geometria Euclidea, l’entità formata da infiniti punti che corrono lungo la stessa direzione, con un principio (forse) ma senza una fine.

Ma perché questa riflessione geometrica? Qualche settimana fa, in viaggio, riflettevo con un collega su come non vi siano più iniziative “tendenti a infinito”: strategie pensate e destinate a durare, se non decenni, almeno qualche anno; dichiarazioni di intenti che sopravvivano a qualche trimestre. In tutte le dimensioni la situazione è lo stesso.

Nella scena politica dove si pensa a pensionare senza rimpiazzare e si cerca consenso nel breve dimenticando le generazioni future. Nella scena aziendale si pensa al dividendo nell’anno fiscale, se non nel trimestre, si trascura innovazione e crescita organica, pure quella dei singoli che fanno un prestito per andare in vacanza ma non sanno quando finiranno le scuole, se si sposeranno, come metteranno su casa.

Tutti in coro intonando “Voglio vivere così, col sole in fronte”, come cantava Claudio Villa.

Se osserviamo le scelte professionali, le carriere, le gestioni aziendali nell’era della Old Economy, esse erano quasi sempre linee rette. Si finiva la scuola con un diploma, una specializzazione, una laurea quindi si iniziava a lavorare. Si progrediva, tanto o poco, si passava – come lungo dei segmenti di una retta – da A a B e poi C… fino alla pensione, senza pensare a dovere o potere cambiare o interrompere. Né per scelta propria né perché cambiava l’amministratore delegato o l’azienda veniva venduta. Insomma, si andava avanti ma con un “piano di vita”, dentro un “piano d’azienda”.

Ognuno con la sua linea parallela tendente a infinito. Chi cambiava lavoro aveva comunque una linea retta di riferimento su cui procedere.

Persino io, che mi definisco “connesso viaggiatore”, ho iniziato a lavorare nel 90 presso Bolaffi SpA, qualificata e prestigiosa Società Torinese, con un buon incarico che mi dava soddisfazione. Poi ho cambiato varie aziende: ho pensato come rendere la mia linea “più veloce” cercando di mettere i vari segmenti in fila tra di loro, lungo l’asse dell’essere un commerciale capace di risolvere l’equazione “voglia di innovazione versus paura del cambiamento”. Dopo 28 anni ancora mi ci riconosco: aperto alle tematiche della vendita e della comunicazione, dotato di spirito partecipativo, autonomo e capace di organizzare e gestire. Solo che giovane non sono più, ma si che l’età è un fatto relativo.

I tempi sono cambiati, e, a quanto pare, le linee rette non vanno più di moda, almeno se le intendiamo come programmi di vita o come piani di aziendali. Oggi esistono tanti segmenti, linee spezzate che non sono più parte di una retta tendente ad infinito. Si vedono solo linee “spezzate”. Magari non è grave, ma questo determina interruzioni e attività a singhiozzo nella vita dei singoli, nelle aziende e nelle carriere.

Ovvio che se è un singolo ad avere le sue linee tratteggiate, una carriera a singhiozzo, andate e ritorni non c’è niente di grave se non per lui o lei. La situazione diventa molto più grave per l’intero sistema economico italiano, se sono i “primi livelli” oppure le alte dirigenze di un intero gruppo di aziende ad avere delle “linee spezzate”.

Molte aziende, per esempio hanno ancora nel logo e sulla carta intestata l’anno della fondazione e hanno sempre lavorato come se non ci fosse una fine, rinnovandosi evolvendo e cambiandosi, con iniziative che, se non a infinito, avevano almeno un respiro lungo abbastanza da non vederne il termine in una generazione.

Pensiamo a Henry Ford o a Olivetti, forse sognatori e utopici: per loro l’azienda che portava il proprio nome era destinata a sopravvivergli, a passare ai loro eredi e così per generazioni all’infinito. “Tutto questo un giorno sarà tuo” certo un concetto capitalistico – plutocratico, vagamente imperiale, ma con un futuro assicurato, non solo per figli e nipoti, ma anche per maestranze, città, nazioni dove le fabbriche avevano sede.

Giungiamo così a parlare di dirigenti, noti anche (per chi ha la passione per la lingua inglese) come Manager. Due ruoli aziendali che voglio analizzare nella loro etimologia.

La prima è facile, deriva da dirigere: dare la direzione. Verso un nuovo punto e verso un altro tratto della nostra linea retta e infinita. L’altra è inglese, ma non del tutto, è anch’essa latina: manus – agere (fare a mano), che implica il saper fare ciò di cui si sta parlando, con la ability to execute che differenzia il leader dal capo funzionale. Di qui si arriva alla conoscenza del come arriva la padronanza nel condurre e dirigere gli altri, l’azienda, i colleghi, le maestranze sino all’obiettivo finale.

Questo è stato fino a metà del secolo scorso, quando le SpA erano società per azioni, non solo intese come titoli di borsa ma anche “azioni”, quelle volte a far crescere oltre al dividendo finanziario quello morale, personale persino quello dell’ambizione. Quando si iniziava un percorso non lo si faceva pensando alla sua fine, o al risultato a breve termine, ma ad un suo auspicabile infinito successo. Magari questa determinazione ha indotto in errori e causato danni collaterali, pensiamo a Fiat e Olivetti. Con il grande Valletta, così determinato a focalizzare Piemonte e Italia nella costruzione di autoveicoli, da suicidare all’altare di quel primato una Silicon Valley eporediese (di Ivrea) che così non nacque mai.

E che dire di quel genio di Adriano Olivetti, con la sua scommessa professionale e scientifica, mai sconfitta, di confrontarsi con chi stava gettando le basi dell’informatica moderna, nominando persino un Italo-cinese come capo del gruppo che a Ivrea doveva creare il primo calcolatore elettronico.

Evolution of Management Thought, di Rahat Chowdhury

Da una ventina d’anni si è perso questo concetto del lungo periodo: esistono le “mission” aziendali, ma si scrivono in un “Business Plan” che pensa a una “Exit Strategy” a breve termine (detti in inglese hanno sempre un loro fascino!). Spesso, quasi sempre, queste fantastiche parole in inglese rappresentano, in un modo o un altro. Una presa di profitto, non crescita o parte di un ulteriore percorso aziendale. Azzardando un parallelo con la Politica: sono morte le Ideologie, di conseguenza sono decaduti gli Ideali. Nel mondo imprenditoriale sono spariti gli idealisti e quindi scarseggiano le idee. E così se nei proclami politici non ci sono più utopie di destra o di sinistra, nelle aziende vengono a mancare le idee intese come piani di lungo periodo.

Ma il ragionare a breve fa venire cattive idee. Un esempio per tutti? Pensare che cambiare i C-level è come cambiare l’operatore telefonico: una strategia di business di sicuro successo. Un altro esempio? Io vendo software per lo Sviluppo Prodotto, che è una piattaforma di livello enterprise e ha un ciclo di vendita che va dai 12 ai 36 mesi. Dal 2015 circa mi trovo sempre più spesso ad iniziare le attività con un CEO, un COO, un CIO e a chiudere la trattativa con altri executive diversi assunti al posto dei primi, pensando che cambiare CEO e prime linee possa migliorare le sorti aziendali.

Non discuto che cambiare alcune risorse possa essere di beneficio all’azienda, ma questo non può diventare un metodo consolidato, specie se si è un’azienda di prodotto. La chart di statista lo spiega in modo chiaro e semplice (i dati sono del 2016). Dopo l’isterica ICT e la volubile Energy, ecco CG CPG che fanno dei gran valzer di CEO…

Io credo che, dal vertice, non si pensa più al lungo periodo, per caduta anche i quadri intermedi aggiornano il loro orizzonte di conseguenza e così financo alla reception, che in molti casi rispecchia esattamente lo “short seeing” di azionisti e direttori generali.

Sul fronte completamente opposto ho potuto constatare, di persona, come le organizzazioni che hanno davvero un piano di lungo periodo lo riverberano, su chi lavora in azienda, dando sicurezza e consapevolezza, a tutti i dipendenti, di essere parte di un progetto e non co-protagonisti di un vago e incerto disegno che prospetta un futuro traballante.

Parlandone con un esperto come Andrea Pietrini, managing partner di YOURgroup, creatore del primo gruppo di Advisory Operativo in Italia, ho discusso della discontinuità manageriale quale possibile risposta e gli ho chiesto se il Fractional Executive possa rendere politiche di lungo periodo efficaci attraverso interventi puntuali e focalizzati.

Andrea mi ha detto “Questo mi piacerebbe, ma non lo posso affermare perché la discontinuità è ormai sistemica e travalica aspetti organizzativi e proposte seppure interessanti come quella del Fractional executive. Questa può essere tuttavia una risposta interessante alla discontinuità professionale del manager, che dà continuità lavorativa perché si fonda sulle capacità professionali e sulle competenze e che fa riprendere il controllo della propria vita professionale che spesso si era delegata ad un mondo produttivo discontinuo. Peraltro lo stesso Harai nel bellissimo saggio: 21 lezioni per il 21 secolo ci dice che Entro il 2050, non soltanto l’idea di “un posto di lavoro per la vita”, ma addirittura l’idea di “una professione per la vita potrebbe apparire antidiluviana. Siamo già nel futuro”.

Andrea Pietrini, Managing Partner di YOURgroup

Ma se fossero invece mancanza di competenze e la difficoltà a svilupparle il freno al “ragionare verso l’infinito” e “uscire dalla comfort zone”? Ancora ho domandato ad Andrea che ha commentato: “Le aree possono essere le più disparate, ma l’attività funziona molto bene in funzioni specialistiche ad alta intensità di competenze: Finanza, HR management, Strategia e Marketing, Digital Transformation, in società che abbiano progetti in cui servano professionalità che sappiano coniugare la specializzazione alla visione globale, che non è mai semplice. Abbiamo tanti casi di successo: dalle scale up dove è entrato un fondo di venture capital, un business angel o hanno concluso un progetto di crowdfunding, a società che vogliono avviare un processo di quotazione su mercati tipo Aim – YOURgroup è partner di ELITE e di Borsa Italiana, oppure in caso di passaggio generazionale, – e qui in effetti si supporta la continuità di un progetto aziendale per riprendere quanto citato sopra.

Consideriamo anche un tema importante per, come dici, tendere all’infinito. La formazione è un elemento fondamentale (meglio dire che dovrebbe essere fondamentale per il manager), in questo caso la tematica dovrebbe toccare egualmente ogni manager sia Fractional che standard. Ciò che osservo è che i manager Fractional, che per definizione sono sempre schierati ad affrontare nuove aziende e nuove sfide, hanno in sé innata una voglia di continuare ad aggiornarsi. I manager stabili, inseriti in un’azienda, rischiano di trascurare la formazione permanente. In questo caso realtà come Cfmt (il centro di formazione management del terziario di derivazione contrattuale, è come è utile un contratto!) sono sicuramente un ottimo supporto per la formazione.

Un tema assimilabile, ma non sempre, alla formazione, è il concetto di disruption o se vogliamo di innovazione. Un manager frazionale, come detto, è esposto naturalmente a questi concetti. Ovviamente, a livello psicologico, è sempre sfidante confrontarsi con strategie, tecnologie e schemi di pensiero nuovi. Un manager statico ha sicuramente bisogno di qualcuno che possa accompagnarlo. Il tema diventa vitale se pensiamo ad un manager che deve pianificare sul lungo. Per sua definizione una visione disruptive o innovativa dovrà, come minimo, essere modulare. Per fare un esempio semplice è come pensare di costruire una stazione spaziale gigantesca. All’inizio del progetto saranno disponibili tecnologie e materiali che, con il passare della ricerca, dovranno essere sostituiti con quelli nuovi. Pensare, sin dall’inizio, ad una strategia di lungo corso ma con un approccio modulare, permetterà innesti di nuove tecnologie. Ecco, tornando sulla terra questa visione di lungo dovrebbe permettere un inserimento di nuove visioni durante l’evoluzione del percorso. Ricordiamo l’immarcescibile Olivetti che partì con la macchina da scrivere e giunse ai personal computer.

Un’ultima menzione, a mio avviso, va al concetto di contrarian. Tema che può essere semplificato in questo modo: se 9 persone dicono che domani il sole sorgerà giallo, perché è sempre stato così, la decima, contrarian, potrebbe domandarsi se siamo sicuri, oppure se sarà giallo.

In un ambito aziendale avere un approccio criticamente costruttivo può essere facilmente percepito come uno che non fa squadra, ma il vantaggio di un approccio del genere, in uno scenario aziendale dove le innovazioni sono oramai all’ordine del giorno (se si vuole sopravvivere ovviamente, nulla vieta di fare come abbiamo sempre fatto).” Conclude Pietrini

Un tema importante della riflessione di Andrea è quello della formazione, di come essa possa essere il modo di tenersi appunto “in linea” rispetto ad un mondo che cambia ed evolve. In questo senso l’offerta formativa di Cfmt va tenuto in grande considerazione. Sia il dirigente che l’azienda dovrebbero costruire un percorso – possibilmente una linea retta – di crescita e sviluppo. Un manager infatti è come un ufficiale in un esercito, necessita della fiducia dei suoi uomini, che spesso sono molto più giovani di lui. Per averne il rispetto deve dimostrare la sua esperienza, ma anche la sua capacità di aver compreso come i tempi siano cambiati e di aver saputo adattarsi ed adeguarsi alle novità. Da molti anni anche io sono uno “studente” Cfmt, sia di percorsi formativi giornalieri che complessi come l’executive master, che è stato di grande utilità sia per aggiornare che per aumentare le mie competenze. Oltre che mettermi in continua discussione.

Proseguendo quindi la riflessione, vorrei anche far un riferimento sui giovani. Questo short term-mood mi sembra generato dai miei coetanei “Generazione X” e sta molto influenzando anche la “Generazione Z” e i Millenials, che semplicemente pensano sempre meno a un “Piano di Vita”. Nonostante chi abbia vent’anni o meno viva in un mondo molto più aperto, con “nuove” dimensioni di Cosmopolitismo e Media.

Assenza di confini e facilità di comunicazione dovrebbero migliorare le strategie usate dai giovani nel passare alla vita adulta e professionale, pensando all’attuazione di progetti di vita futuri, anche di coppia o di famiglia. Invece un così potente framework di riferimento non diventa strumento per definire le aspettative di futuro e organizzare la loro realizzazione prima formativa poi occupazionale. Al contrario, sempre più giovani vedono la vita solo “a breve” e preferiscono il “gaudeamus igitur”.

Occhio però: gli irresponsabili non sono loro, siamo noi che diamo un cattivo esempio. E così lo spiega Four Hooks, una digital agency basata in Romania, paese dove forse è proprio la mancanza di certezze che fa ancora pensare al lungo periodo.

Questa mia riflessione è prima di tutto un’autoanalisi, io stesso appartengo alla categoria nata negli anni Novanta, dei Dinkie (double income – no kids), ma desidero concluderla con un esempio di una linea di vita interrotta e ricostituita con ancora maggiore vigore e decisione.

Quella di Danilo Ragona che all’età di 21 anni a causa di un incidente, ha visto il suo piano di vita interrompersi, ripartendo su una carrozzina. Ma questo non ha fermato né la creatività né l’inventiva di Danilo. Diventato designer (nel 2011 ha vinto la Menzione Premio Compasso d’Oro ADI) ha sempre cercato di essere libero, ha creato la sua azienda Able to Enjoy ed ha reinventato il concetto di diversa abilità e mobilità, coniugandola a fashion, innovazione e tecnologia.

Da designer a imprenditore, Danilo ha allungato la sua linea – interrotta dal Fato – e progetta carrozzine per disabili. Pezzi unici che si ripiegano in uno zaino, con ruote adatte a sabbia e neve e una dotazione di innovazione e tecnologia condita di dettagli Fashion. Fighissime e personalizzabili in migliaia di combinazioni differenti, hanno anche sfilato sulle passerelle della Milano Fashion Week.

Danilo è un amico ma per me è anche un esempio. Oggi è anche una star televisiva con il suo Giro del Mondo che ogni domenica si vede su RAI3 nella trasmissione Kilimangiaro. Alla faccia di chi teme il lungo periodo e le linee rette!

Lo ringrazio e invito anche voi a prendere esempio da lui quando ci coglie la tentazione del tracciare una lineetta breve, giusto lunga quanto la nostra confort zone. Troviamo il coraggio di estendere il nostro orizzonte e allungare all’infinito le nostre aspirazioni.

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