Le differenze culturali

Aziende e organizzazioni hanno sempre più bisogno di una bussola per orientarsi nel contesto globale e multiculturale in cui operano. Questa bussola potrebbe essere il Modello di Hofstede. Vediamo di cosa si tratta

Differenze culturali tra paesi: tema attualissimo, da affrontare con urgenza, non per pura curiosità intellettuale, ma perché da queste differenze possono sorgere conflitti imprevisti e incomprensioni molto profonde, in cui rischiano il naufragio iniziative nate da presupposti tecnici, finanziari, d’affari e di crescita eccellenti.
Si parla in molti casi di shock culturale: può sembrare un’esagerazione, ma sfido chiunque a mantenere la calma quando scopre che la riunione presso il partner finlandese si svolge in una sauna a 90°, che la controparte cinese dice sempre di sì, ma non fa mai quanto convenuto, o ancora che il collega tedesco s’intestardisce sulla sua tesi e diventa anche molto arrogante.

Non occorre andare molto lontano per incontrare problemi culturali: anni fa, una multinazionale decise di spostare la propria sede europea dall’Olanda al Belgio, dove già esisteva una filiale, trasferendo tutto il personale olandese.
Un trasloco di poco più di un centinaio di chilometri, due paesi senza nemmeno una frontiera, una lingua in comune: eppure nei primi sei mesi la convivenza tra olandesi e belgi fu difficilissima, quasi caotica, aspri conflitti, con gli affari in caduta libera!

Purtroppo nessuno aveva preparato tutti i colleghi ad affrontare la situazione, spiegando che il modo in cui belgi e olandesi concepiscono i rapporti d’affari e la comunicazione con i manager, la motivazione al lavoro o semplicemente quando fare la pausa caffè, è completamente diverso, direi diametralmente opposto!
Ma proprio qui sta il vero nocciolo della questione: chi nasce e cresce in una cultura reputa “normale”, giusto, buono, adeguato, quello che per altri, con valori culturali diversi, è “anormale”, sbagliato, ingiusto…

Oggi aziende e organizzazioni hanno sempre più bisogno di una “bussola” per orientarsi nel contesto globale e multiculturale in cui operano. E sicuramente necessitano di qualcosa di più approfondito di una business etiquette, che spesso finisce per accentuare la sensazione di estraneità nei confronti di altre culture.
Questa bussola esiste e la si può trovare nel libro Culture e organizzazioni, di cui ho recentemente curato la traduzione italiana.
Il testo descrive la ricerca statistica condotta dal professor Gert Hofstede in oltre cento paesi, da cui scaturisce il modello interpretativo delle diversità culturali nazionali, riconosciuto come riferimento irrinunciabile per chiunque tratti temi interculturali.


Le 6 dimensioni
del modello interpretativo
In grande sintesi, il modello individua sei dimensioni, cioè sei valori culturali, e ci indica quanto ogni valore si rifletta nei comportamenti osservabili in ciascun paese indagato dalla ricerca.
Le dimensioni corrispondono ai dilemmi fondamentali che tutte le culture devono risolvere.

  1. Distanza di potere

    Prima dimensione, Distanza di potere: come, cioè, una cultura concepisce il rapporto con il potere e con chi lo detiene all’interno di una gerarchia, esplicita o implicita, in famiglia, a scuola, in azienda. Fondamentale riconoscerla in ogni relazione manageriale e d’affari.
    Nelle culture gerarchiche, ad esempio, chi ha potere è attorniato da evidenti status symbol, malvisti e quasi irritanti per chi proviene da culture egualitarie.
    Un mio coachee svedese, futuro ceo di una succursale turca, prima di insediarsi volle sostituire l’enorme scrivania e la poltrona in legno scolpito del suo ufficio con mobili molto più semplici. Malinteso culturale!
    La Svezia è egualitaria (e, come l’olandese, preferisce il basso profilo), quindi per lui quei mobili erano spropositati; mentre nella cultura turca, più gerarchica, rappresentavano i simboli del potere: eliminandoli, avrebbe perso per collaboratori e clienti anche il potere insito nel ruolo e, quindi, il loro rispetto.
  2. Individualismo

    Valore per cui in una cultura i legami sociali sono centrati sul singolo individuo, contrapposto al collettivismo, dove il valore sociale di una persona (la sua “faccia”) dipende dalla sua appartenenza a un gruppo o a una famiglia e dalle buone relazioni che annovera. Una curiosità: le culture collettiviste sono molto più numerose delle individualiste, concentrate soprattutto in Europa occidentale e nel mondo anglosassone. Da qui le grandi difficoltà di manager e negoziatori anche italiani di trattare, ad esempio, con le culture orientali, arabe e latino-americane. La strategia vincente è: investire molto tempo, anche mesi, nel costruire buone relazioni, per creare fiducia ed essere inclusi nella rete sociale, senza dimenticare che il buon manager si comporta da vero capofamiglia, severo quando occorre, ma che si prende cura in tutto e per tutto delle sue persone (e delle loro famiglie).
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  3. Mascolinità

    Valore che si riflette nella competitività, nella realizzazione di obiettivi concreti e nella motivazione data dal successo personale; al polo opposto si colloca la femminilità che preferisce la collaborazione, la modestia, l’essere di aiuto agli altri e punta alla qualità della vita più che al successo conquistato. Le culture più femminili: Olanda, Svezia, Danimarca, Norvegia, Finlandia, dove ci si aspetta che il manager sia soprattutto un bravo conciliatore delle diverse esigenze individuali, più in ascolto che al comando, ed eserciti una vera leadership consultiva.
    Recentemente un direttore generale italiano, a capo di un’azienda olandese, volendo rinnovare completamente la sede aziendale, stava per compiere un tipico errore da cultura mascolina (e meno egualitaria): ristrutturare l’edificio durante la chiusura estiva. Domando: «Ha consultato il personale?» «Certo che no, sarà una bella sorpresa per tutti!». Errore, perché? In quella cultura, ogni decisione va presa ottenendo il consenso di chiunque ne sia toccato, altrimenti anche le migliori intenzioni rischiano di sortire malumori e demotivazione.
  4. Avversione all’incertezza

    Valore che porta una cultura a privilegiare tutto ciò che possa dare sicurezza (ad esempio, norme, regole e procedure) e allontani l’ansia che deriva da ambiguità e incertezze. Se questo valore è meno fortemente sentito, le culture vivono con meno stress e accettano l’incertezza che la vita sempre comporta. Questa dimensione ha, tra l’altro, un forte impatto su pianificazione, controllo e burocrazia statale o aziendale. Il Giappone, ad esempio, è ad altissima avversione all’incertezza, con rigidi rituali sociali, il Regno Unito si colloca al polo opposto, come tutto il mondo anglosassone. L’Italia si posiziona alta: abbiamo emotivamente bisogno di regolamentare la realtà che ci circonda, ma questo non implica sempre un incondizionato rispetto delle regole che ci diamo, con buona pace di molti pregiudizi altrui.
  5. Orientamento al lungo termine

    Valore che permea soprattutto le culture orientali e confuciane, caratterizzato da una visione a lungo termine e da un forte pragmatismo. Due esempi: le strategie che riguardano i prossimi cento anni delle aziende giapponesi; e il famoso detto cinese, quintessenza di pragmatismo: che il mio gatto sia bianco o nero, l’importante è che cacci i topi in cantina.
  6. Indulgenza

    La sesta dimensione individua culture che tendono alla soddisfazione relativamente libera dei desideri umani più naturali di godersi la vita, divertirsi, essere felici; al polo opposto, troviamo culture restrittive, in cui tale soddisfazione dev’essere limitata e disciplinata da rigide convenzioni sociali. È un valore da considerare quando, ad esempio, si deve posizionare e promuovere un prodotto sul mercato: cultura più ottimista o pessimista, spensierata o austera?


Consapevolezza dei propri valori culturali
Un’indagine condotta da PricewaterhouseCoopers segnala che per senior executive europei e americani espatriati le maggiori sfide sono: 69% il cambiamento dei comportamenti abituali, 65% le differenze culturali, 54% le diversità nelle prassi d’affari.
Non disponiamo di dati su quante risorse finanziare, di tempo e psicologiche si possano risparmiare acquisendo competenze culturali, ma il buon senso ci dice che molto si può ancora fare se Kpmg indica che nelle fusioni internazionali il 53% del valore degli affari va perduto.
Ma cosa fare, concretamente? Il primo passo è essere consapevoli dei propri valori culturali confrontandoli con quelli delle altre culture: in questo ambito tutto è relativo, non esistono valori migliori di altri, ma solo diversi. È così possibile abbandonare etnocentrismi e pregiudizi, per comprendere, razionalizzandole, le profonde motivazioni dell’altro. Formare, poi, e costruire competenze culturali, grazie a percorsi specifici, per tracciare strategie efficaci di comunicazione, relazione o negoziali, di collaborazione e management, efficaci perché adeguate ai contesti culturali in cui si opera.
In questo complesso percorso il Modello di Hofstede è una bussola indispensabile.

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