Letture per manager: Expert brain

Il nostro cervello cresce adattandosi agli stimoli ambientali, producendo esperienza sotto forma di nuove abilità. Se stimolato, si modifica a livello strutturale e prende una nuova forma

Quali differenze ci sono tra il cervello di una persona di talento e quello di una persona normale?

Esistono delle configurazioni neurofisiologiche in grado di evidenziare le caratteristiche di una persona di successo? Che cosa hanno in comune un grande chef e un giocatore di scacchi e come riescono a eccellere?

Queste le domande alle quali Antonio Cerasa cerca di rispondere nel libro “Expert brain. Come la passione del lavoro modella il nostro cervello” (Franco Angeli Editore).  

L’autore, psicologo e ricercatore del CNR, si occupa di neuroscienze. Niente paura, il libro di cui stiamo parlando, non è un trattato di anatomia del cervello o un manuale per specialisti. So che in passato avete acquistato un testo qualunque su questo tema, so anche che avete abbandonato presto la lettura perché troppo complicata, inadatta per i non addetti ai lavori.

Il libro contiene comunque, nelle pagine iniziali, alcune nozioni introduttive necessarie per comprendere il contenuto dei capitoli successivi: cosa sono il cervelletto, la corteccia, il sistema limbico. Se avete visto il film Inside Out della Disney, diciamo che avete già delle buone basi. L’autore ci spiega poi come il cervello degli esperti in un certo ambito lavorativo si modelli in seguito ai continui allenamenti, fino ad eccellere in una certa abilità. In sintesi, come cresce il “muscolo” chiamato “cervello”?  

Le evidenze scientifiche dimostrano che il cervello cresce adattandosi agli stimoli ambientali, producendo esperienza sotto forma di nuove abilità. Se stimolato, il cervello si modifica a livello strutturale e prende una nuova forma. Cosa succede allora nei cervelli degli esperti, le persone che raggiungono risultati lavorativi nettamente superiori alla media?

Per rispondere a questa domanda, è stato chiesto a 11 rinomati chef di partecipare ad una ricerca dove venivano posti a confronto con altrettante persone, equiparabili come anagrafe, ma con una unica semplice differenza: non sapevano cucinare. Durante la ricerca sono state utilizzate tecniche di risonanza magnetica funzionale (fMRI) e di imaging cerebrale, grazie alle quali è stato possibile scansionare dimensioni e forma del cervello dei partecipanti.

Vi lascio alla lettura del libro per la descrizione completa dell’esperimento, qui citiamo il principale risultato. Sia l’attività manuale nel cucinare che la capacità di coordinamento del personale di cucina, in situazioni di forte stress, portavano gli chef ad avere più “massa neuronale”, più area grigia, un cervello più sviluppato in alcune aree. In particolare risultavano ingrandite le aree cerebrali coinvolte nel tatto, nella visione e nel coordinamento. Come se la pratica continua ripetuta negli anni avesse generato una specializzazione di quelle aree del cervello.

Intendiamoci, qui non si parla di intelligenza. Non stiamo dicendo che gli chef sono più intelligenti delle persone normali ma che le persone in grado di raggiungere l’eccellenza nel loro lavoro lo devono al continuo, estenuante e a tratti ossessivo allenamento quotidiano. Non esistono altre scorciatoie.

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