Marchionne: genio o illusionista?

Nel suo libro Francesco Varanini mette in discussione alcune scelte compiute dal top manager, sottolineando le criticità del suo operato

“I am a fixer, io metto a posto le cose”. Così si presenta Sergio Marchionne alla stampa e il fatto che Marchionne sia stato un manager visionario e allo stesso tempo efficace lo dimostrano i risultati: in quattordici anni evita il fallimento di Fiat, decuplica il suo valore in Borsa e la porta ad essere la sesta società automobilistica al mondo. Appena insediatosi in Fiat taglia intere linee di dirigenti, elimina decine di uomini della vecchia guardia.

Azzera il management, sradica lo status quo, riduce la catena gerarchica. I superstiti vivono un’esperienza di lavoro totalizzante che travolge la vita delle persone che lavorano con lui, la parola “fine settimana” perde di significato. I risultati arrivano: nel 2007 viene lanciata sul mercato la nuova Fiat 500, simbolo del boom economico e ora rinascita dell’azienda torinese. Il titolo azionario raggiunge i suoi massimi a Piazza Affari. Il brand della casa automobilistica ritorna al suo splendore.

Sempre nel 2007 il gruppo realizza 2 miliardi di utili e inizia l’avventura che porterà Fiat ad acquisire Chrysler e diventare così una “grande” dell’industria automobilistica internazionale. Risultati, questi, che hanno reso Marchionne una rockstar in ambito manageriale, un’icona intoccabile. È proprio così?

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Non proprio, come ci racconta invece Francesco Varanini nel suo libro Marchionne non è il migliore dei manager possibili (Guerini Next editore, 184 pagine). Il libro di Varanini mette in crisi già dalle prime pagine il modello Marchionne, certe scorciatoie decisionali, la scaltrezza che invece tanto è piaciuta al grande pubblico, manager compresi.

La scalata di Marchionne al mercato internazionale dell’auto viene qui vista invece come uno sradicamento dal mercato italiano, con la conseguente riduzione dei livelli occupazionali e lo smantellamento delle attività di ricerca e sviluppo. Per l’autore, Marchionne svende il valore dei marchi Fiat, Alfa Romeo e Lancia a favore del brand Jeep.

Nel 2008 viene chiusa la scuola di formazione interna Isvor, per anni luogo di trasmissione della cultura aziendale Fiat. Per Varanini, Marchionne passa dal principio del “creare valore” a quello dell’estrarre valore, dove anche il costo del lavoro deve essere minimizzato. Come? Attraverso un sempre più spinto ricorso all’automazione e alla delocalizzazione, fino a rendere indifferente e indipendente il luogo di produzione.

L’analisi critica dell’operato di Marchionne è anche un pretesto per estendere lo sguardo critico all’intero sistema della finanza internazionale e dei manager strapagati che supportano gli investitori, spesso a discapito dei piani industriali e degli investimenti in lavoro e sviluppo. L’autore dedica un capitolo del suo libro proprio alla sproporzione dei guadagni tra lavoratori e top manager, spesso giustificata dal solo fatto che il manager al vertice lavori a un unico scopo: la soddisfazione del proprio azionista. E questo, per Varanini, se non regolamentato, può andare a svantaggio dell’impresa stessa.

È qui che ogni singolo manager può fare la differenza, allontanandosi da schemi neoliberisti della finanza speculativa. Avere dei modelli di riferimento aiuta senza dubbio ma, ci ricorda Varanini, bisogna sempre osservare e capire, avere una propria visione del mondo dove competenza ed etica del singolo possono e devono fare la differenza. Perché per essere un buon manager non basta indossare il rassicurante maglione di Marchionne.


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