Il marketing e la comunicazione li ha inventati la chiesa?
Lorenzo Incantalupo «Potremmo rispondere a questa domanda prendendo in prestito le parole del libro di Bruno Ballardini in “Gesù lava più bianco” e cioè appunto che “il marketing esiste già da duemila anni”.
In realtà, il marketing e la comunicazione esistono in forme diverse sin dalla notte dei tempi. Anche se in forme diverse da come le intendiamo noi oggi. Il De Bello Gallico e l’Eneide, non sono forse opere di promozione di Cesare e di Augusto? Lo stesso vale per i grandi monumenti fatti costruire dai vari regnanti. Ecco, certamente la Chiesa, portatrice di un messaggio fortissimo, in questi duemila anni ha dimostrato professionalità, costanza e determinazione, oltre che grande competenza tecnica».
Quando e perché la politica si è avvicinata alle tecniche di marketing e di comunicazione?
L.I. «Anche la propaganda politica è sempre esistita. Venendo al caso italiano, sia durante il regime fascista che già nell’immediato dopoguerra la politica si è appunto affacciata alle prime tecniche di propaganda.
Sintomatico è che un disegnatore come Gino Boccasile, responsabile dei manifesti bellici del regime e considerato il “pubblicitario” della Repubblica Sociale Italiana, dopo la guerra abbia lavorato moltissimo nella pubblicità tradizionale, con aziende come Pirelli, San Pellegrino, Fiera di Milano, Spumante Riccadonna, Roberts, Sperlari e Yomo. Inventò un’icona del Novecento come la Signorina Grandi Firme per la rivista di Cesare Zavattini.
Già negli anni 50 la Democrazia Cristiana si avvalse della collaborazione di Ernest Dichter, psicologo austriaco naturalizzato statunitense, considerato a suo tempo uno dei massimi esperti di “persuasione occulta” dei consumi, citando un famoso saggio di Vance Packard.
Ma diciamo che sicuramente la prima rivoluzione nella comunicazione politica italiana avviene con Silvio Berlusconi, che porta molte delle tecniche più avanzate del marketing aziendale in politica e ne fa un elemento cruciale della sua proposta».
Quali sono alcuni paralleli inequivocabili che mostrano come business e politica usano le stesse tecniche di marketing e comunicazione?
L.I. «Certamente la persuasione del consumatore e dell’elettore rispondono a logiche simili. Nel nostro libro, la professoressa universitaria Nadia Olivero, una delle massime esperte di psicologia dei consumi, ci spiega come in realtà molte delle nostre scelte sono a guida emotiva e non razionale. Su questa leva, sia le aziende che la politica spesso si misurano nell’interlocuzione con i loro consumelettori».
Sembra che gli errori di marketing e comunicazione si paghino più nel business che nella politica. Mentre alcuni marchi sono spariti dopo errori clamorosi, difficilmente è successo per i politici o i partiti, che trovano sempre e comunque clienti. È vero o no e perché?
L.I. «In realtà, le conseguenze ci sono in entrambi i casi, basti pensare alla volatilità elettorale a cui abbiamo assistito negli ultimi anni con leader e partiti che sono passati da percentuali risibili a consensi a due cifre, e viceversa, in pochissimo tempo.
Quello che cambia sono i tempi. In azienda spesso il successo o l’insuccesso si misura in anni fiscali, o addirittura in trimestri di vendita, in politica l’orizzonte è quello delle tornate elettorali, ma, in entrambi casi, vince il prodotto/proposta. E farsi ammaliare dalle sirene dell’over promise può avere effetti nel breve periodo, ma nel lungo si paga. In azienda, come in politica».
Aumentare voti o fatturati e quindi conquistare share of mind è così simile?
L.I. «Diciamo che il consenso è più strettamente legato al successo, voti, mentre in azienda il passaggio tra share of mind e fatturato non è sempre così immediato».
Quando e come la comunicazione di business ha inciso sulla società e sulla politica? Quali i casi più eclatanti? Ed è mai avvenuto il contrario?
L.I. «Nel libro citiamo alcune campagne che con prospettive diverse hanno inciso sulla società e sulla politica italiana. Una è la celebre “Chi mi ama mi segua” dei Jeans Jesus, firmata da Oliviero Toscani, uno dei dialoghi più interessanti che trovate nel libro; un’altra è quella dell’Amaro Ramazzotti, indissolubilmente legata alla stagione della Milano socialista degli anni 80. Al contrario, ancora una volta dobbiamo pensare a Silvio Berlusconi e all’impatto del marketing mix delle campagne di Forza Italia».
Ci citate uno dei più riusciti capolavori di marketing e comunicazione nel business e uno nella politica?
Domenico Petrolo «Diciamo che la produzione è vastissima in un campo e nell’altro. Sicuramente, oggi alcune campagne che provano a unire le due anime della narrazione, quella dei brand e quella più politica, sono esempi da guardare con grande interesse. Il brand activism, cioè la volontà dei brand di prendere posizione su temi rilevanti per la società è un fenomeno in grande evoluzione in tal senso.
In ambito politico ce ne sarebbero tanti, dalla discesa in campo di Berlusconi, al primo Renzi, che raggiunge il 41% alle Europee, l’esplosione del M5S di Grillo e Casaleggio, ma anche la campagna per Emma Bonino del 1999: “Finalmente l’uomo giusto”. La Bonino non venne eletta al Quirinale, ma i radicali presero ben l’8,5% alle elezioni europee».
E un big fail?
D.P. «Citando un celebre spot pubblicitario degli anni ottanta, diciamo che tutte le campagne che tendono a stupirci con effetti speciali, senza costruire un tessuto narrativo solido e di lungo periodo, sono tendenzialmente dannose sia in politica che in azienda.
Recentemente, invece, ha fatto molto parlare di sé la campagna “Italia. Open to Meraviglia”, sulla quale si è già scritto moltissimo, e che probabilmente più di tanti piccoli peccati veniali ha scontato una confusione di base tra posizionamento di prodotto, target e linguaggi.
Restando strettamente in ambito politico, sicuramente “Futuro e libertà”, il partito fondato da Gianfranco Fini dopo lo strappo con Berlusconi. Grandi investimenti e molto spazio sui media, ma alla camera prese lo 0,46%».
Come i social hanno inciso nell’uno e nell’altro campo?
D.P. «Sia i social che la comunicazione digitale hanno cambiato totalmente i paradigmi. Sia per la frammentazione dell’audience, sia perché hanno introdotto una comunicazione bidirezionale, sia nella grammatica dei media. Nel campo politico, come raccontano nel libro diversi protagonisti di quella stagione, l’azione di Grillo e Casaleggio è stata rivoluzionaria».
Chi usa di più gli influencer e come?
D.P. «Diciamo che aziende e politica si avvalgono di questi “volti” in maniera diversa. In politica abbiamo assistito al fenomeno dei candidati-influencer, anche oggi di grande attualità. In azienda l’uso degli influencer è stato per molto tempo gestito senza prospettiva strategica. In entrambi i casi, solo chi ha saputo costruire una narrativa coerente con il proprio posizionamento, attraverso influencer credibili, ha avuto successo.
Il brand activism avvicina o allontana in generale e in ottica marketing e comunicazione politica e business?
D.P. «Tema di grande attualità che alimenta sempre il dibattito. Possiamo dire che in una certa fase il brand activism ha riempito il vuoto della politica, ma ha anche beneficiato di alcune lotte politiche di frontiera. Nel libro, ad esempio, citiamo una campagna di Nike che ha visto la casa di Beaverton battibeccare addirittura con Donald Trump a colpi di tweet».
Ma poi, alla fine, che la politica utilizzi le tecniche di marketing e comunicazione è un male o un bene?
D.P. «Dipende da come le usa. Usare tecniche anche sofisticatissime di marketing per propagandare le proprie idee è cosa “buona e giusta”. Il rischio è quando il messaggio di marketing diventa messaggio politico, sostituendo la proposta politica vera e propria».