Pensate di fare un lavoro del cavolo? Siete in ottima compagnia!

Il libro Bullshit jobs ha scatenato un acceso dibattito all'estero

Il mondo del lavoro è circondato da un tabù. Le statistiche dicono che la maggior parte delle persone non ama il proprio lavoro. Un insieme di questi poi dichiara di essere contento di trovare delle scuse plausibili per non dover andare a lavorare. Tutto questo però non si può dire se non in qualche spettacolo comico per riderci sopra. In tempi di crisi poi, lamentarsi del proprio lavoro diventa un insulto, essere disoccupati una colpa.  

Questo libro di David Graeber, professore di Antropologia presso la London School of Economics, vuole proprio infrangere questo tabù. Già a partire dal titolo: “Bullshit jobs. Le professioni senza senso che rendono ricco e infelice chi le svolge e costituiscono il fondamento del nuovo capitalismo globale. In italiano potrebbero definirsi lavori del cavolo” (Garzanti editore).

Un titolo che all’estero ha avuto forte risonanza sui media e scatenato accesi dibattiti. Un sondaggio effettuato in Gran Bretagna dopo l’uscita del libro ha rivolto la seguente domanda agli intervistati: “Il vostro lavoro dà un contributo significativo alla società?”. A sorpresa oltre un terzo, il 37%, ha risposto di no, contro un 50% invece sicuro di dare un contributo e un 13% di insicuri sulla risposta da dare. Lo stesso sondaggio ripetuto in Olanda portava al 40% la percentuale di coloro che affermavano che il loro lavoro non avesse ragione di esistere. Percentuali che danno voce a un malcontento diffuso ma difficile da dichiarare in modo aperto. 

A sostenere la propria “inutilità sociale” non sono infermieri, autisti di autobus, dentisti, spazzini, contadini, insegnanti di musica, tecnici riparatori, giardinieri, vigili del fuoco, scenografi, idraulici, ispettori della sicurezza, musicisti, sarti o addetti all’attraversamento degli scolari. Persone che magari non amano il loro lavoro ma che allo stesso tempo sono consapevoli di fornire un contributo significativo alla società.

I più critici rispetto all’utilità del proprio lavoro sono invece gli avvocati societari e gli investment bankers, lavori questi che anche l’autore considera bullshit jobs. In senso più ampio Graeber categorizza come bullshit jobs tutti quei lavori inutili, noiosi, deleteri e per i quali lo stesso dipendente non riesce a trovare giustificazione della sua stessa esistenza. Il concetto di lavoro inutile in realtà non è del tutto nuovo. Già nel 1955 la rivista The Economist riportava un saggio di C. Northcote Parkinson dove sosteneva la tesi secondo la quale il lavoro si espande fino a riempire il tempo libero.

Questo il paradosso messo in evidenza dal libro, la tecnologia libera dai lavori più gravosi e ci offre più tempo libero. Tempo che però non viene liberato del tutto ma reimpiegato in attività consumistiche.

Proprio questa domanda crescente di prodotti e servizi legati al tempo libero genera la richiesta di altre tipologie di lavoro che Graeber considera di bassa utilità sociale essendo lavori “stupidi”.

Per quanto datato, il problema dei job title inutili o gonfiati e delle attività senza senso sembra essere cresciuto in modo esponenziale dal dopoguerra ad oggi. Lo studioso di management Gary Hamel sostiene l’esistenza negli Stati Uniti di un “burocrate” aziendale ogni 4.7 lavoratori, come se una crescente percentuale del tempo impiegato dai dipendenti venisse consumata negli sforzi per impedire all’organizzazione di crollare sotto il peso della sua stessa complessità. Questo libro di David Graeber è un libro sgradevole ma fa riflettere, per questo vale la pena leggerlo.

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