A cura di Paolo Borghetti, AD & Founder di Future Age
Oggi le PMI italiane sono circa 760 mila e rappresentano oltre il 75% del nostro tessuto imprenditoriale, impiegando oltre l’80% della forza lavoro italiana, con una crescita media del 5,6% annuo. Da sole le nostre PMI generano il 41% dell’intero fatturato nazionale e il 38% del valore aggiunto del Paese in base ai dati dell’Osservatorio Digital Innovation del Politecnico di Milano. In particolare, le aziende familiari rappresentano oltre l’85% del Made in Italy produttivo: un patrimonio di know-how e tradizione imprenditoriale fortemente identitario per il nostro Paese, che suscita gli appetiti dei grandi fondi internazionali e dei predatori del mondo della finanza.
Fondi di investimento, Made in Italy a rischio?
Passano sempre di più per le mani dei Private Equity i processi di cessione del capitale delle aziende familiari italiane. A confermare questa tendenza è la recente indagine di Pictet Wealth Management e School of Management del Politecnico di Milano che rivela che i Fondi di Private Equity sono stati gli investitori principali nel 37% delle cessioni di aziende familiari, per un controvalore complessivo di 15 miliardi di euro. Un dato in crescita rispetto all’anno precedente, che evidenzia il rischio che sempre più PMI decidano di rinunciare a capitalizzare il loro know-how pluriennale, il Dna di valori, l’artigianalità e il “saper fare” che rendono uniche al mondo le nostre eccellenze.
I tre fattori “killer” per la cessione di capitale delle PMI
Oltre alla motivazione prettamente economica – monetizzare dopo anni di fatiche può essere saggio – i fattori che inducono l’imprenditore italiano a cedere il capitale d’impresa sono diversi. A partire dalla difficoltà di gestione dei passaggi generazionali per evitare l’effetto Kamikaze che porterebbe l’azienda a nascere e a morire con la stessa persona a capo o, peggio, a venire ceduta a fondi stranieri. Per questo è fondamentale che un imprenditore, una volta raggiunta la sua completa maturità, faccia un passo indietro, lasciando spazio ai successori per trasferire a loro tutte le dinamiche e i processi, le competenze e le reti di relazioni.
In primo piano fra le cause che rischiano di minare la longevità dell’impresa ci sono anche gli equilibri famigliari instabili. Sono tantissime le PMI italiane che vivono conflitti familiari tra soci, incomprensioni interne, disaccordo, indifferenza, competizione, e sentimenti di rivalità e gelosia. Questi elementi di contaminazione spesso possono compromettere la capacità di sviluppo o addirittura la sopravvivenza del Family business.
Ultimo, ma non per importanza, anche il ritardo nello sviluppo manageriale e digitale. Le nostre PMI si fondano, infatti, su modelli organizzativi “accentrati” nei quali i processi sono spesso nelle mani di una o poche persone, i cosiddetti “Ranger solitari”. Il passaggio a modelli organizzativi manageriali basati su ruoli a perimetri chiari comporta un cambiamento di mentalità che spesso le imprese ritardano oppure non riescono da sole ad affrontare e metabolizzare. Questo ritardo sullo sviluppo organizzativo-digitale rende l’azienda sempre meno attrattiva per candidati e figure manageriali di alto livello.
Il ruolo chiave del Digital Mentoring
Il digital mentoring svolge un ruolo chiave nel superamento di queste criticità perché è un programma manageriale che consente di cambiare il modello organizzativo delle PMI attraverso tre competenze fondamentali: la psicologia per la gestione dei passaggi generazionali e la risoluzione degli equilibri famigliari instabili, l’ingegneria per la riprogrammazione dei processi e l’informatica per la digitalizzazione.
Per essere davvero efficace e sostenibile, però, il passaggio inter generazionale dovrebbe conciliare la continuità con il know-how ed i valori dell’azienda e l’innovazione di ruoli e processi, coinvolgendo progressivamente i giovani talenti per formarli, valutarne il potenziale e, se possibile, forgiarli in nuovi manager. Per fare questo è necessario sviluppare un programma di Digital Mentoring nel corso del quale i Digital Mentor di Future Age – manager internazionali con esperienza trentennale che abbinano sia competenze tecniche che umanistiche (neuroscienza, intelligenza emotiva, gestione del conflitto, scienze comportamentali) – affiancano la nuova generazione. Un approccio, quello del Digital Mentoring, che prende le distanza dalla classica consulenza accademica, per essere innanzitutto un partner, coinvolto in prima persona nella digitalizzazione dei processi e nel potenziamento della Business Intelligence.
Gli obiettivi del programma di Digital Mentoring sono trasferire alle nuove generazioni il modello imprenditoriale manageriale-digitale per l’evoluzione dell’azienda familiare. Ma non solo: ai giovani manager viene trasmessa sia una formazione accademica che una formazione pratica sul campo per metterli in grado di affrontare al meglio anche situazioni di stress-test.
Change Management ad alto impatto
In un percorso di Change Management di successo è fondamentale la psicologia, che aiuta ad abbandonare le zone di comfort e ad abbracciare l’innovazione. Mappare i processi per razionalizzarli e implementare soluzioni tecnologiche sono i due step successivi verso la svolta digitale che porta l’organizzazione al cambiamento grazie ai principali sistemi Tech: i software ERP; i software documentali; i software MES; l’Internet of Things (IoT); la Business Intelligence; il cloud; la cybersecurity.
Ridisegnare ruoli, processi e perimetri
Grazie alla pluriennale esperienza maturata “sul campo”, come direttore di funzione o direttore operations, il Digital Mentor si avvale di tutte le competenze tecniche e del know-how necessari a mappare e ridisegnare i processi in un’ottica di ottimizzazione della gestione operativa e funzionale. Questa riorganizzazione sarà rispecchiata da un funzionigramma che rappresenterà le relazioni tra le unità organizzative ed i processi interfunzionali, ma anche i responsabili di funzione (o manager) che gestiranno i diversi processi sotto la supervisione del board. Sarà solo l’inizio di un’evoluzione virtuosa, con effetti immediati sulla corretta identificazione dei ruoli e dei perimetri di competenze, ma anche su una più efficiente ripartizione dei carichi di lavoro.
L’Erp customizzato non è un’opzione
Gli Erp fungono da hub centrali per il flusso di lavoro e i dati end-to-end dell’azienda, consentendo l’accesso a una vasta gamma di reparti e processi e supportando la pianificazione efficiente di approvvigionamenti e produzione in un’ottica di crescente redditività. Tuttavia, il Rapporto Istat per il 2023 rivela che meno di una impresa italiana su due (47,9%) utilizza almeno un software gestionale e che solo il 13,6% condivide i dati elettronicamente con i fornitori o i clienti all’interno della catena di approvvigionamento. Il software più implementato dalle imprese è l’ERP (42,2% delle imprese) seguito dall’utilizzo di CRM (19,2%) e dal software BI (14,3%).
Ma quali sono le criticità? In che modo le PMI possono acquisire il Know How necessario a implementare Erp su misura per la crescita e l’ottimizzazione dei processi?
L’adozione dei software di produzione è stata spesso spinta solo dalle agevolazioni fiscali dell’industria 4.0 oppure sviluppata in modo frammentato attraverso Mes, schedulatori e Wms. In altri casi le aziende acquistano software non adeguati alla conformazione aziendale, sovradimensionati o sottodimensionati alle capacità aziendali perché non viene svolta un’attività di software selection attraverso società indipendenti. Questi aspetti hanno portato all’assenza o difficoltà nell’analisi e valorizzazione del dato che rappresenta la base della Business Intelligence. La risposta a queste criticità è nel Digital Mentoring, ovvero nell’affiancamento al team di lavoro aziendale di un manager di comprovata esperienza in grado di guidare “dall’interno” i professionisti delle diverse funzioni aziendali nella scelta e nell’implementazione di un Erp di nuova generazione.
A proposito di Future Age
Nata nel 2015 dall’intuizione imprenditoriale di Paolo Borghetti, imprenditore seriale e Business Mentor, Future Age è un’organizzazione specializzata nel Change Management e nell’innovazione ad alto impatto. La sua mission è quella di accompagnare le PMI italiane nel percorso per l’evoluzione digitale sostenibile, nel segno nell’integrazione fra persone, processi e tecnologie. Future Age ha rivoluzionato il mondo dell’informatica introducendo la figura del Mentor, un manager che combina competenze scientifiche e umanistiche, come l’intelligenza emotiva e la Programmazione Neurolinguistica (Pnl). Oggi l’azienda – che ha un organico di 25 manager – ha al suo attivo un portfolio di oltre 300 clienti attivi, un fatturato di 4 milioni di euro ed un patrimonio netto che si avvicina a 3 milioni di euro. Nel 2022 il suo modello di Digital Mentor ha raggiunto una diffusione ancora più estesa: il 47% del fatturato Future Age, infatti, è stato generato al di fuori della Regione Lombardia. L’esercizio 2023 si è concluso con un Ebitda al 32% e un fatturato di 4 milioni.