Potere, leadership e consenso

Riflessioni per manager oltre la retorica delle dinamiche organizzative
leadership e potere

Il potere non gode di buona fama. Social network, libri e pubblicazioni sono zeppi di formule come “meno potere e più leadership”, di elenchi di distinzioni tra l’essere capo e l’essere leader (tutti, naturalmente, a favore di quest’ultimo approccio) e di ricette preconfezionate su come condurre un’organizzazione al successo. La realtà, nelle aziende così come nei rapporti sociali, è però ben diversa da questa rappresentazione ideale. Il potere esiste: alimenta le decisioni, innerva le relazioni, influisce sui comportamenti. Rimane il fatto che, sul tema del potere, da un lato c’è molta confusione e, dall’altro, un approccio quasi sempre carico di pregiudizi e poco pragmatico.

Potere: definizione e forme

Comincio quindi col condividere una definizione di potere: il potere è la capacità di un attore sociale di determinare le condotte di un altro attore sociale, basata su una disparità di risorse e sulla capacità di utilizzarle in modo efficace. Nella nostra quotidianità possiamo osservare questo fenomeno in diversi contesti: il manager di un’azienda determina le azioni dei suoi collaboratori, così come un genitore guida le scelte del figlio o un politico il comportamento degli elettori. La prima distinzione significativa si basa sulla tipologia di risorse possedute dal soggetto in posizione di potere, che sono fondamentalmente tre: la forza, che determina il potere coercitivo, le risorse materiali, che determinano il potere economico, e le risorse simboliche, che determinano una particolare forma di potere che definiamo leadership. Nella mia tassonomia, quindi, la leadership non è qualcosa di diverso dal potere, ma una delle sue forme. Precisamente, la leadership è una forma di potere basata su una disparità di risorse simboliche.

Potere potenziale e attuale

Aggiungo anche un ulteriore elemento che ha a che vedere con altri due attributi del potere, che, uniti alla distinzione appena vista, spiegano, nella loro essenza, in che cosa consistano i giochi di potere. Usando il linguaggio della scienza della politica, infatti, si parla di potere potenziale e potere attuale. Il potere potenziale è quella serie di condotte che il soggetto detentore del potere potrebbe potenzialmente ottenere dal soggetto che lo subisce. La definizione di potere potenziale ha quindi a che vedere con la possibilità da parte di un soggetto di determinare le condotte di un altro soggetto. Un manager, per esempio, detiene un potere potenziale su un suo collaboratore nel momento in cui è in grado di fargli eseguire un compito qualora glielo chieda. Quindi, il limite e il perimetro del potere potenziale di un soggetto sono rappresentati da quel novero di azioni e comportamenti che chi subisce il potere è disposto a compiere a causa della disparità di risorse che caratterizza quella relazione. Tuttavia, il fatto che il manager ne abbia la possibilità non implica necessariamente che quest’ultimo trasformi la possibilità in azione: potrebbe rimanere una pura potenzialità, che non si concretizza in una condotta. Il potere attuale, di conseguenza, è ciò che il soggetto detentore di potere trasforma da potenzialità in azione: i comportamenti e le condotte concreti che egli ottiene in virtù del suo potere. È la trasformazione della potenza in atto, per usare il linguaggio aristotelico da cui derivano i due aggettivi. Nel momento in cui il manager del nostro esempio chiedesse al collaboratore di eseguire il compito, trasformerebbe il potere potenziale in potere attuale. Questa trasformazione viene definita esercizio del potere.

I giochi di potere

Da queste definizioni deriva una conseguenza fondamentale che ci aiuta a comprendere le dinamiche e i giochi di potere: l’esercizio del potere ha infatti sempre un costo, che, tipicamente ma non necessariamente, è rappresentato dal trasferimento di una certa quota della risorsa da chi detiene il potere a chi lo subisce in funzione dei comportamenti richiesti. I giochi di potere, ridotti alla loro essenza, si possono riassumere così: chi è in grado di amministrare in modo efficiente il proprio potere riesce a minimizzare questo costo, rendendo così il più efficiente possibile l’esercizio del potere; dall’altro lato, potrebbe essere interesse di chi subisce il potere rendere il più costoso possibile il suo esercizio, in modo da equilibrare quella disparità di risorse che, come si è detto, è alla base della relazione di potere.

La scelta della forma

Una gestione efficiente del potere consente quindi di ottenere i comportamenti desiderati pagando il minor prezzo possibile: in questo consiste una delle abilità fondamentali di chi detiene il potere, m anche uno dei temi fondamentali da trattare quando si parla di potere nelle organizzazioni. Tornando, quindi, alle tre tipologie di potere – coercitivo, economico e leadership – quello che fa un attore razionale in un’arena organizzativa è scegliere la forma di potere il cui esercizio è meno costoso, sulla base delle risorse che detiene e dei fattori situazionali che caratterizzano quella specifica relazione. La domanda è, quindi, quale forma di potere (o quale mix di forme) sia più efficiente al fine di ottenere le condotte desiderate, pagando il minor prezzo possibile. Proprio su questa domanda si innesta la mia critica a quella che io chiamo, nel mio libro sul potere, “la retorica della leadership”, che, mi pare, si fonda su due assunti fuorvianti.

Due assunti sulla leadership

Il primo assunto è che la leadership sia qualcosa di diverso dal potere. Come ho già argomentato, infatti, la leadership è una forma di potere. Più precisamente, una forma di potere basata su un differenziale di risorse simboliche. Il secondo assunto è che, quand’anche si riconosca che la leadership è una forma di potere, molti autori e un certo pensiero mainstream fanno della leadership la forma più efficace di esercizio del potere, in qualsiasi contesto, a prescindere da qualsiasi variabile situazionale. Io non sono d’accordo neppure su questo secondo assunto. Il mio disaccordo si basa su una conseguenza delle definizioni delle varie forme di potere, che è questa: l’unità di misura della leadership è il consenso. Infatti, chi subisce la leadership adotta il comportamento desiderato perché colui che la detiene, attraverso un uso efficiente delle risorse simboliche in suo possesso, riesce in qualche modo a ottenerne il consenso.

La costruzione del consenso

La conseguenza di questo approccio è che la stessa definizione di leadership è legata a filo doppio al tema del consenso: la leadership sarebbe, in questa accezione, anche definibile come capacità di costruire e gestire consenso. Se questo è vero, ci sono una serie di situazioni nelle quali la costruzione del consenso rispetto a scelte, cambiamenti, progetti non è il modo più efficiente per ottenere le condotte necessarie a mettere in atto questi propositi. La costruzione del consenso, infatti, ha un costo che, in alcune situazioni, può essere molto elevato. Si tratta di situazioni in cui c’è una forte resistenza al cambiamento, che renderebbe molto costosa, e a volte impossibile, la costruzione del consenso verso la soluzione proposta, e forse anche una remunerazione delle condotte richieste e, quindi, l’esercizio di un potere economico. In questo caso potrebbe funzionare soltanto il potere coercitivo. Oppure la necessità di affermare l’identità di un gruppo, fatta anche di valori non negoziabili su cui è indispensabile lanciare messaggi chiari e forti, che superino aspettative contraddittorie da parte degli attori interni ed esterni all’organizzazione o, anche, la presenza di coalizioni di attori che hanno interessi particolari e conflittuali.

Il “populismo organizzativo”

Infine, un soggetto potrebbe anche avere la necessità di attrarre su di sé l’attenzione con uno stile di esercizio del potere che mostri in maniera inequivocabile quanto egli sia disponibile a fare per realizzare i suoi progetti e dare vita a un nuovo corso, senza cedere a forme più o meno evidenti di quello che potremmo definire una sorta di “populismo organizzativo”, fondato sulla necessità di costruire il consenso a tutti i costi. Si tratta di un calcolo costo-beneficio che porta gli attori delle organizzazioni a scegliere la forma o il mix di forme di potere che ritengono più efficiente a seconda delle situazioni.

Luca Baiguini Fate pace con il potere

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