Quale nuova cultura del lavoro?

A tu per tu con Giorgio Di Tullio, innovation designer, progettista di piattaforme per la rigenerazione organizzativa e per la ricerca. Di Tullio sarà il protagonista del primo appuntamento del percorso Leading from the middle, riservato ai quadri, l’11 maggio dalle 17:30 alle 19

I middle manager sono sempre più pedine determinanti nello scacchiere aziendale: svolgono un ruolo strategico di collegamento e comunicazione tra i vari reparti e indirizzano le informazioni nel modo più efficace possibile. Il mondo del lavoro cambia e, con esso, le dinamiche interne all’azienda: il ruolo del quadro è sempre più difficile e determinante per mantenere l’equilibrio giusto e creare le basi per tradurre nella pratica le sempre più varie e articolate strategie aziendali. Manageritalia lo sa ed è per questo che è alla continua ricerca di un’offerta formativa di valore, diversificata e personalizzata, che risponda alle esigenze del contesto e consenta di gestirne l’evoluzione.

Va in questa direzione il programma “Leading from the middle” che, nato grazie a un accordo di Manageritalia Lombardia con Wyde – The connective school, viene offerto a tutti i quadri associati a Manageritalia (solo per la prima sessione, anche a quadri non iscritti) e sarà articolato in 3 appuntamenti.

L’obiettivo del primo incontro, “Verso una nuova cultura del lavoro”, in programma per giovedì 11 maggio, dalle 17:30 alle 19, online, è un dialogo in cui spiegare in maniera non banale la trasformazione che sta avvenendo nei luoghi di lavoro.one in linea con le attuali trasformazioni in corso e le potenzialità già presenti all’interno e all’esterno della comunità di riferimento per comprendere il purpose di quello che facciamo.

ISCRIVITI QUI.

Ne parliamo con Giorgio Di Tullio, designer di strategie, piattaforme per la rigenerazione culturale e la ricerca, che sarà ospite e coordinatore del primo appuntamento. 

Il lavoro sta cambiando: lo subiamo o lo disegniamo a nostra immagine e somiglianza?

«Il lavoro oggi ha una complessità che sfugge ad ogni tipo di previsione e di replicazione. È un continuo agire di tutti all’interno dello spazio comune secondo regole del tutto nuove. Nell’ultimo secolo siamo stati governati da una visione meccanica e lineare del lavoro, abbiamo dato per scontato che fosse fisso e ripetibile, scandito in mansioni definite e che il compito del manager fosse quello di ripetere, controllare e misurare. Ci siamo rivolti a schemi sintetici e formule precompilate che poco risolvono e molto complicano. Abbiamo costruito compiti che esaltano la precarietà. Il lavoro ha mangiato sé stesso: il misurare, controllare, pesare, riferire ha superato il progettare, costruire, collaborare, sognare. La nostra identità lavorativa deve imparare a ri-disegnarsi per cambiare continuamente».

Lavorare diventa sempre più complesso e sfidante e, allo stesso tempo, noi giustamente chiediamo sempre di più in termini di senso. Come trovare il bandolo della matassa?

«Il lavoro è un costante flusso di umanità e di valore che chiede adattatività e capacità di rivolgersi alle cose per migliorarle effettivamente e non apparentemente. Il lavoro è sempre un plurale: si deve ragionare più in termini di interdipendenze che di dipendenza. Il lavoro è auto-poietico (capacità di un sistema complesso vivente di mantenere la propria unità attraverso le interazioni dei diversi componenti), è sensibile, necessario, largo e non più formulaico (non confezionato con elementi che si ripetono fino a diventare standard). Le imprese sono organizzazioni sociali, quindi agire il lavoro significa costruire progetti condivisi, piani di sperimentazione per la scoperta e l’apprendimento, significa favorire un’intelligenza collettiva che non può essere ridotta a ruoli e funzioni (finanziarie, produttive, creative, artigianali, di servizio) impermeabili, gelose, chiuse. Sono le interazioni e le intersezioni la base, il contenuto e l’oggetto del lavoro. Moltiplicare, analizzare e gestire le interazioni in facilitazione e coordinamento diventa compito strategico e sostanziale del lavoro».

Cos’è e come dovrebbero essere oggi un’organizzazione e un team di persone che lavorano insieme?

«La risposta è nella capacità di costruire le condizioni per una nuova fertilità. Per essere fertile l’organizzazione deve essere porosa, attraversare e lasciarsi attraversare da mondi diversi. Dare valore agli attraversamenti di altri mondi significa sposare le differenze in modo quotidiano e trasversale, indirizzando ogni attività al miglioramento della vita dei propri interlocutori. Abbiamo dato priorità all’accumulo di conoscenze specialistiche codificate a tal punto che spesso non sappiamo riconoscere i problemi macro, né sviluppare soluzioni che risolvano le cose in modo connesso. La tecnologia non basta: servono strategie basate sugli utilizzatori, configurare con loro reti che condividano obiettivi e culture, che siano flessibili e basate su progetti. Progettare è un’attività eversiva, che introduce sempre novità e cambiamenti, sviluppa adattamento reciproco, una nuova attitudine cognitiva, una nuova etica».

Per chi fa il manager e deve stimolare e far crescere le persone e il business, qual è il filo conduttore dell’organizzazione del lavoro da costruire?

«Ora si è tutti più consapevoli di quanto la salute e il benessere siano una priorità e debbano essere tutelati in ogni sfera della nostra vita, lavoro incluso. Sono le persone a creare il successo di un’impresa e possono farlo solo se stanno bene. Dare valore alle persone significa prendersi cura di loro, valorizzarne le forze, cogliere fragilità e sconforto, intercettare attitudini e premiarle, creare un clima aziendale positivo. Introdurre domande sull’identità emotiva dell’organizzazione: nel nostro insieme siamo abbastanza assertivi, ansiosi, auto-riferiti? sappiamo stare in conversazione? Lavoro agile, spazi flessibili, apprendimento di competenze trasversali, accordi di lavoro non basati sul tempo ma sulla professionalità, sul valore fornito: abbiamo necessità di strategie che superino le categorie e i confini del passato. Dobbiamo agire come ricercatori, sperimentatori, pionieri, trattando ogni nuovo ostacolo come un esperimento da cui imparare, adattarsi e crescere. Si deve creare la cultura del miglioramento che deriva dagli errori. Si devono fare continuamente errori migliori».

E il middle management, i quadri, storicamente tra l’incudine e il martello, come devono cambiare e dare senso al loro ruolo?

«Bisogna capire quali siano i nodi delle relazioni interne all’azienda, perché le imprese sono entità dinamiche in continua relazione, come tutti gli esseri viventi. Non bastano schemi e adesioni a organigrammi funzionali, scritti senz’anima e spesso senza specificità. Siamo tutti responsabili della nostra azienda, trasversalmente, anche se nessun mansionario ne parla. Si tratta di capire il valore di ciò che si fa. Il nuovo sistema degli scambi e del lavoro chiede una costruzione partecipata che deve favorire la conoscenza collettiva e l’iniziativa condivisa, all’intersezione di differenti pratiche. Per essere leader in questo mondo senza confini, le persone devono attivare la propria curiosità, guardando a ogni decisione come a un esperimento che accelererà l’impatto e genererà nuove possibilità. Non si deve pensare di avere la risposta giusta all’inizio, ma operare con umiltà e imparare dalle nuove informazioni per poterle perfezionare il più rapidamente possibile. In questa direzione i middle manager sono nodi importantissimi: devono essere costruttori di ponti in ogni direzione, l’attività di bridging è quella che si contrappone allo storico bonding conservativo e protettivo».

Qual è la nuova cultura del lavoro che serve oggi e in futuro tra rapporto con le AI, collaborazione tra le persone, motivazione e rapido cambiamento delle competenze?

«La tecnologia, le nuove invenzioni pensate per far fronte ai cambiamenti, finiscono per produrre ulteriori cambiamenti, una nuova pratica di lavoro sta prendendo forma: decentralizzato, fondato sulla relazione, leggero nelle regole e orientato a una strategia molteplice e adattabile. Abbiamo bisogno di agenti di cambiamento capaci di agire insieme. Collaborare è una strategia efficace non solo in relazione alle persone ma anche alle cose, alla natura: invece di pensarci come enti isolati dobbiamo imparare che la soluzione è nell’alleanza, nella partnership. Anche le nuove forme della tecnologia sono strumenti di e per la collaborazione: assistono, non rimpiazzano (se non in assenza di reale valore). Potremmo definire queste nuove organizzazioni come reticolari: adottano il pensiero progettuale come linguaggio primario di interazione, perché il progetto amplia le opportunità di confronto e l’interazione favorisce lo scambio del valore. Passano alla collaborazione tra team che lavorano in network. Creano le condizioni di migliore fertilità del terreno organizzativo: i comportamenti e le interazioni prima dei processi e degli strumenti, il prodotto funzionante più che la comunicazione, la collaborazione col cliente più che la vendita di oggetti. Il cliente è il primo finanziatore, progettista, comunicatore e promotore, è un partner. Abbracciano il metodo scientifico (non solo reperimento e gestione di dati, ma come sperimentazione, ricerca e verifica) per pensare e sviluppare prodotti certificati e sostenibili, in grado di portare innovazione profonda nella società. Trasmettono il controllo in periferia, con chiarezza e trasparenza, dando autonomia alle persone, coinvolgendole e facendole sentire uniche. Creano un ambiente sicuro in cui si lavora per consegnare costantemente nuovo valore. Il modo migliore per un’organizzazione di adattarsi alla complessità è essere fertile, porosa, reattiva e agile. Le aziende devono abbandonare le illusioni di controllo totale e riconoscere il ruolo che svolgono in ecosistemi vivi e in evoluzione».


Facebook
LinkedIn
WhatsApp

Potrebbero interessarti anche questi articoli

Cerca