I giovani sono la linfa vitale della vostra attività. Come li attraete e trattenete?
«Ernst & Young assume più di 1.500 neolaureati da università in tutta Italia, con un equilibrio di genere praticamente perfetto. Si parte da uno stretto rapporto con scuole e università, che comprende attività di orientamento, corsi offerti dai nostri professionisti e attività di employer branding, compresa l’individuazione di campus ambassador: studenti formati da noi che portano la conoscenza dell’azienda presso altri studenti. Ogni anno offriamo più 1.600 tirocini e apprendistati per facilitare l’ingresso in azienda. EY investe poi in formazione, con un minimo di 50 ore annue di media, programmi di sviluppo personalizzati e percorsi di carriera chiari. Le iniziative di wellbeing sono fondamentali per assicurare che i giovani si sentano soddisfatti e motivati a rimanere in azienda. Questo unitamente alla loro “mobilitazione” rispetto ad attività a impatto sociale, come la tute la dell’ambiente e il trasferimento di competenze imprenditoriali in territori svantaggiati».
Che visione hanno del lavoro e come riuscite a ingaggiarli davvero?
«I giovani vedono il lavoro come un’opportunità per crescere, imparare e fare la differenza. Tuttavia, non è la loro unica priorità: famiglia, amicizie e benessere giocano un ruolo altrettanto importante. Diventa dunque importante trasferire il senso del lavoro. EY ingaggia i giovani offrendo un ambiente di apprendimento continuo, con progetti stimolanti e significativi che permettono di mettere in pratica le competenze acquisite e di svilupparne di nuove. Il tutto in un clima dove fare squadra e il cooperare sono elementi distintivi. Per questo abbiamo sponsorizzato uno Young leadership board che dialoga direttamente con la leadership sui temi più importanti e strategici, come la trasformazione legata all’IA e la revisione degli spazi di lavoro post pandemia. Questo ci consente di ascoltare le idee dei giovani e coinvolgerli attivamente nei processi decisionali, creando un senso di appartenenza e responsabilità».
La visione del lavoro tra le varie generazioni cambia. Quali strategie adottare per farle collaborare insieme, minimizzando i conflitti e massimizzando i benefici?
«EY è un’azienda giovane, con un’età media di circa 32 anni. Non mancano tuttavia le sfide per far dialogare le diverse generazioni, in particolare la partnership con i professionisti alla prima esperienza lavorativa. Per facilitare il dialogo e la collaborazione intergenerazionale, EY ha innanzitutto creato un ambiente di lavoro inclusivo e flessibile, che rispetti e accolga le esigenze e aspettative delle varie generazioni, massimizzando i benefici della diversità generazionale. L’attività consulenziale e di progetto promuove inoltre una naturale coesione di team, con un mentoring continuo e reciproco. I professionisti più senior condividono le loro competenze tecniche, di vendita e di gestione delle relazioni interpersonali con i colleghi più junior, mentre questi ultimi offrono una sorta di mentoring inversa sulle competenze tecnologiche più recenti, creando così un ambiente di apprendimento reciproco».
Qual è il ruolo dei manager per una nuova organizzazione del lavoro?
«I manager hanno un ruolo cruciale nel guidare e supportare i team, promuovendo una cultura di feedback continuo e sviluppo professionale, in una logica di “crafting” leadership, ovvero una leadership che plasma il lavoro sulle competenze e attitudini del singolo professionista. Un’organizzazione del lavoro flessibile, basata su agilità e collaborazione, permette ai manager di essere più vicini ai propri team, facilitando comunicazione e innovazione. Questo richiede nuove competenze e un maggiore investimento da parte dei manager stessi, che devono essere accompagnati e supportati dall’azienda in questo percorso. Per questo EY investe in modo importante nella formazione manageriale e di leadership, competenze in continua evoluzione anche grazie alle esigenze espresse dai giovani professionisti».
GENERAZIONI AL LAVORO: SFIDE O OPPORTUNITÀ?
La parola al team people consulting di Ernst & Young, che ogni giorno si occupa di persone e strategie aziendaliOggi sul lavoro convivono quattro generazioni. È una situazione nuova o è sempre stato così?
«È una situazione recente, poiché in passato non c’era una sovrapposizione così marcata tra le diverse fasce d’età. Il calo demografico e l’aumento dell’età pensionabile – le persone lavorano più a lungo e ritardano il pensionamento – hanno portato a un invecchiamento della forza lavoro, con il 35% dei lavoratori italiani che oggi ha più di 50 anni. Parallelamente, la digitalizzazione e l’obsolescenza delle skill tecniche spinge le aziende a ricercare nuove competenze e profili: la Gen Z rappresenterà entro il 2025 il 27% della forza lavoro nei paesi Ocse (World Economic Forum, 2022)».
È un’opportunità o una minaccia?
«La diversità di valori, credenze e approcci al lavoro, che rischiano di condurre a difficoltà di integrazione, può portare a vivere l’intergenerazionalità come una minaccia. In realtà, se gestita correttamente, rappresenta un vantaggio competitivo per le aziende, grazie alla valorizzazione delle distintività di ciascuna generazione. Ad esempio, quelle più giovani, come la Gen Z, sono portatrici di competenze digitali, una differente visione del worklife balance e un’attenzione alla sostenibilità; le generazioni più mature, come Baby boomer e Gen X, si contraddistin guono per il senso di appartenenza, intraprendenza ed esperienza. L’integrazione di tali dimensioni attraverso la collaborazione intergenerazionale assicura una maggiore prontezza al cambiamento e innovazione, che si traduce nel miglioramento delle performance aziendali».
Cosa differenzia la visione del lavoro tra queste generazioni?
«Le differenze generazionali si manifestano principalmente nelle aspettative verso il lavoro e l’organizzazione. La Gen Z valorizza l’equilibrio tra vita privata e lavorativa, cerca scopi personali e apprezza la flessibilità. I Baby boomer e Gen X, invece, tendono a vedere il lavoro come una fonte primaria di realizzazione e successo. Tuttavia, non sono così diverse: condividono valori come rispetto, trasparenza e collaborazione, elementi cardine all’interno del concetto di psychological safety, ossia un ambiente che permette l’espressione libera di idee, opinioni e proposte innovative e che rappresenta un principio fondamentale per favorire la collaborazione».
Mentoring e reverse mentoring sono utili per favorire la collaborazione?
«Il mentoring tradizionale può aiutare i giovani a sviluppare competenze professionali attraverso l’esperienza dei colleghi più senior. Al contempo, il reverse mentoring consente ai più giovani di condividere le nuove tecnologie e di trasmettere la propria visione innovativa. Ci sono anche altre metodologie, più proattive, che favoriscono la collaborazione: quelle basate sull’approccio open innovation, ad esempio, possono rappresentare dei momenti di confronto su una tematica particolare tra diverse generazioni, favorendo l’innovazione in una logica bottom-up. Questi approcci incentivano il trasferimento bidirezionale di conoscenze e creano uno spazio di confronto che aumenta l’engagement e il senso di appartenenza».
Come incide sull’azienda una buona o cattiva collaborazione tra generazioni?
«Se la collaborazione tra generazioni avviene nel migliore dei modi, si crea un ciclo virtuoso in cui l’azienda diventa un ecosistema inclusivo e resiliente, incidendo su esiti positivi come benessere e produttività. Al contrario, un contesto culturale che accentua le differenze a discapito dell’ascolto conduce a fenomeni di isolamento o group-thinking, limitando il pensiero creativo. In questi casi, bisogna ripartire creando una cultura inclusiva, in cui più che il cluster o il gruppo di appartenenza venga valorizzata la persona nella sua unicità».