Vino italiano e piccole produzioni di eccellenza: il marketing che non c’è

I vini italiani costituiscono un patrimonio di valore inestimabile, ma sono ancora scarse le risorse destinate al marketing. Assenti una strategia enoturistica e un approccio manageriale, a fronte di numerosi territori ancora da valorizzare, a differenza di quanto avviene all'estero

Lo ricordava Oscar Farinetti a “Quante storie” pochi giorni fa, mentre lanciava il suo nuovo libro “Quasi”, l’Italia ha il più grande numero di varietà di uva al mondo: 300, di cui 96 coltivate attivamente contro le 40 francesi, secondo paese mondiale. Ma, mentre l’azienda vinicola media francese occupa oltre 10 ettari di terreno in Italia si passa a soli 2 ettari.

Un’estensione ridotta che sottolinea la parcellizzazione delle imprese vinicole sul territorio italiano e che si riflette anche nella produzione. Moltissimi vini di nicchia, moltissimi piccoli produttori che non hanno la forza e le competenze per arrivare al grande mercato, alla Gdo e si fermano alla vendita locale, al passaparola, alla bottega di paese, con un grande spreco di forze, energie e aziende magari costrette a chiudere o abbassare i prezzi a livello minimo.

L’Italia fa ottimi numeri nel mercato vitivinicolo. Il nostro export nel 2015 si è attestato a 36,8 miliardi di euro con un balzo del +7,3% e gli anni a seguire hanno solo rafforzato questa nostra posizione (dati di Wine by numbers di Unione Italiana Vini e Corriere Vinicolo, che ha messo insieme i numeri raccolti da istituti di statistica, dogane e organizzazioni di filiera).

Questo non deve distrarci dal fatto che un vasto mondo vinicolo in Italia ancora arranca sopravvivendo tra leggi tortuose, sussidi europei complessi e un mercato che premia i grandi numeri, specie se si vuole andare sulla Gdo o l’export. Ecco che i piccoli produttori più svegli si appoggiano all’enoturismo per aiutare i conti a quadrare, perché di solo vino è sempre più difficile vivere. Ma anche qui l’Italia pecca di provincialismo e ignoranza e soprattutto della convinzione che il prodotto buono si venda da sé. Basta guardare i siti delle aziende, sempre esistano, e si trovano delle traduzioni in inglese molto azzardate. Quasi mai si può comprare online. Pochissimi usano i social e se sì in maniera artigianale/fai da te, senza un piano di comunicazione, un calendario, la capacità di gestire una crisi. Nulla. Tutto fatto in famiglia, tutto affidato al “cugino che ha studiato all’estero”: poi si scopre che è andato 3 settimane a Hastings, al massimo. I risultati sono tragicomici.

La figura del marketing manager specializzato, del social media manager è un qualcosa visto come eccessivo e, si immagina, carissimo. No, posso testimoniare che ho svolto in passato un ruolo di marketing manager condiviso. Mi occupavo di più aziende vinicole, piccole, tutte con prodotti di nicchia, naturalmente non in concorrenza: un’azienda produceva un rosso di fascia alta e alcuni rossi di pronta beva, un’altra andava sulla distribuzione nei market locali, una ancora aveva dei bianchi. Tre territori distinti. Per me era semplice seguirli perché, alla fine, dovevo seguire un unico prodotto: il vino. Le fiere, le direttive Ue, le leggi italiane, il linguaggio tecnico erano condivisi. Poi ad ogni azienda si sposava una strategia differenziata sul prodotto, l’area e il proprietario. Alla fine le tre imprese avevano un impegno economico tranquillo e io vedevo riconosciuta la mia professionalità.

Per chi ha avuto il piacere di fare un wine tour non solo negli Usa e, anche là, non solo nella Napa Valley, ma magari in distretti meno conosciuti, come a nord di Seattle l’area di Woodinville o come in Ungheria nella Valle delle Belle Donne, appena fuori Eger, avrà potuto notare l’organizzazione semplice e intelligente di aree dedicate alla degustazione di molte etichette, di diverse case vinicole assemblate come in una passeggiata, una via l’altra.

Può sembrare l’uovo di Colombo, ma poter andare in taxi in un luogo deputato al wine tasting, magari all’interno di un’area vocata, immagino per l’Italia i dintorni di Alba o Siena o Verona, avere 20/30 case vinicole tra cui scegliere, fermarsi, bere e magari restare a mangiare in qualche ristorante limitrofo per poi tornare in hotel in taxi o navetta, dopo aver comprato 2 o 3 casse di vino, sarebbe una grande spinta specie per quei piccoli produttori che non possono permettersi di partecipare a molte fiere enoiche.

Qui ci si rivolge alle aziende locali e anche agli enti territoriali: perché non importare questa idea?
Potremmo moltiplicarla all’infinito in Italia aiutando le piccole cantine a emergere. Purtroppo la frammentazione regionale non aiuta. Un disegno di legge nazionale renderebbe più semplice regolamentazione, progettualità e magari, accesso a fondi dedicati per uno sviluppo territoriale che porterebbe lavoro e aiuterebbe i giovani a non abbandonare le campagne.

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